Si fa sport per vincere, per partecipare o per…? Dalle e-mail che riceviamo è abbastanza facile convincersi che lo sport viene considerato molto diversamente dai praticanti. Già il titolo evidenzia alcuni “partiti” sportivi, ma in realtà le posizioni sono molte e diversificate. Prima di svelare la risposta, provate a considerare queste frasi:
- Con la volontà di allenarsi si arriva ovunque.
- Lo sport può portare stress e preoccupazioni come ogni altra attività della mia vita.
- Chi ottiene scarsi risultati è uno scansafatiche.
- Arrivare ultimi? Tanto vale smettere.
- Conta più il piazzamento che la prestazione.
- Avrei rinunciato a tutto pur di diventare un campione.
- Meglio ritirarsi che arrivare ultimi.
- Quando incontro un amico che non sa nulla di sport (o addirittura che lo odia), gli parlo comunque di tutti i miei successi con grande dovizia di particolari.
Fatto? Continuate a leggere, ma prima perdonatemi se vi ritrovate in qualcuno dei personaggi descritti di seguito. Sono convinto che riflettendo migliorerete il vostro rapporto con lo sport e in definitiva la vostra vita.
- Stakanovista – Dimenticate che ognuno ha la classe e il fisico che gli ha dato la natura. L’allenamento può migliorarvi, ma non oltre misura. Sarebbe come dire che basta lavorare sodo per diventare miliardari.
- Nevrotico – Chi non è professionista deve fare sport per vivere meglio, non per vivere peggio. Ci può essere sofferenza, fatica, lotta, ma se ci sono stress e preoccupazioni vuol dire che il rapporto con lo sport non è buono o per lo meno che può migliorare. Lo sport deve essere un amico che ci dà gioia e piacere e non un padrone che ci domina promettendoci soddisfazioni.
- Intransigente – Siete sempre critici verso gli inferiori. Se non siete i primi al mondo, dimenticate che chi è più bravo di voi potrebbe dire la stessa cosa.
- Competitivo – Fate sport per emergere non perché lo amate. Forse è meglio che smettiate subito. Molti anni fa all’Arena un mio amico velocista mi iscrisse in un 1500 m con un tempo pazzesco; finii in una batteria fortissima e arrivai ultimo (anzi penultimo perché uno si era ritirato…), staccatissimo. Sulla retta finale feci comunque lo sprint: non ricevetti mai tanti applausi come quella volta.
- Sognatore – Secondo voi è meglio vincere una corsa in cui si è unici partecipanti (in questo caso ricordatevi: non siete arrivati primi siete arrivati “unici”), piuttosto che finire con il record personale in una corsa dove si è arrivati ultimi. Per voi conta più apparire che essere.
- Scontento – Avere un’unica cosa che nella vita ci rende veramente felici è un po’ riduttivo e significa spesso essere schiavi del nostro obiettivo. La vera capacità di amare il mondo è di trovare tante cose per cui vale la pena di vivere e battersi.
- Insicuro – Avete paura che gli altri vi deridano. Leggete l’aneddoto al punto 4.
- Patetico – Lo sport è un mezzo per emergere (ma purtroppo a differenza del punto 4 non ne avete i mezzi), anche se in genere il vostro livello è medio basso. Approfittate dell’ignoranza altrui per spacciarvi per il prossimo campione olimpico.
Qual è la soluzione della domanda del titolo? Riporto un passo di La felicità è possibile:
L’importante è buttare il cuore oltre il traguardo.
Un’altra causa di contrasti è la competizione: arrivare primi significa essere bravi, essere grandi, arrivare secondi vuol dire essere dei falliti. Questo atteggiamento ci porta spesso a renderci invisi perché non rispettiamo le regole e facciamo qualunque cosa pur di vincere, perché ci beiamo della nostra vittoria, aumentando il senso di fallimento degli sconfitti. Chi è felice perché con la sua vittoria ha sconfitto gli altri, perché vale più di loro e può guardarli dall’alto in basso è un poveraccio che non vale niente.
Il concetto da cui deve partire un’analisi corretta della competitività è che la vittoria non è lo scopo e che quindi vincere non vuol dire essere i migliori. Gli sportivi ricorderanno ora la celebre frase forse decoubertiniana: “L’importante è partecipare”; il senso del nostro discorso non è però questo. Infatti la famosa frase olimpica è sì bella, ma spesso non si sposa con la vita di tutti i giorni. Partecipare, lo sanno tutti, non basta: è come se per uno studente bastasse essere presente alle lezioni: certo non gli si chiede di essere il migliore, ma almeno deve impegnarsi quanto basta per essere promosso. Siamo cioè in presenza di due concetti estremi. Credere che “vincere è l’unica cosa che conta” porta a una competitività esasperata che si ritorce contro di noi facendoci odiare dai secondi e facendoci sentire falliti quando perdiamo (sì, perché la vittoria può essere merito nostro, ma spesso è demerito degli avversari che non sono sufficientemente forti o preparati: chiunque può trovare qualcuno più forte di lui. E allora che cosa si fa: ci si suicida?). Al contrario il concetto per cui “l’importante è partecipare” porta a una sorta di pigrizia che non riesce a farci dare il meglio di noi stessi.
Il segreto che risolve entrambe le posizioni sta tutto in questa regola: la competizione serve per dare il meglio di sé stessi e gli altri non sono avversari da battere, ma punti di riferimento.
Chi pratica uno sport amandolo capirà benissimo che cosa voglio dire: quando un avversario ti stacca puoi ritirarti (e allora sei un nevrotico), puoi tirare i remi in barca (e allora sei un pigro) o puoi usarlo come punto di riferimento per dare il massimo e fare tutto ciò che potevi fare quel giorno. Anche nella quotidianità il segreto è lo stesso: se ti impegni in una competizione, non pensare al risultato, pensa solo a dare il massimo di te stesso.
Il valore dello sport
Il sito dà allo sport un’importanza notevole nella vita di una persona. Questa posizione rischia però di creare false aspettative, soprattutto in quegli sportivi che non frequentano la parte psicologica.
A prescindere da tutti quei casi in cui lo sport è fatto male, molti sportivi che lo praticano bene ne amplificano oltre misura il valore, facendolo diventare quasi una religione (misticismo). Ho identificato tre comportamenti che mi sono del tutto estranei e che non ho mai trovato in runner equilibrati.
Lo sport non deve essere tutto – Non deve cioè creare dipendenza perché in tal caso non è un oggetto d’amore, è una droga. Troppi runner non sanno gestire gli infortuni perché non sanno fermarsi; altri, più ragionevoli, si fermano, ma cadono in crisi. Chi ha una vera capacità d’amare, se lo sport viene a mancare, sa dirigerla altrove.
Lo sport non deve essere legato alla propria autostima – Chi supera il primo punto, spesso non riesce a superare il secondo. Il risultato sportivo (sia che ci si alleni tutti i giorni oppure due volte alla settimana) entra a far parte della propria vita, quasi fosse un dato segnaletico della propria carta di identità. Si noti per esempio come molti runner tendano a raccontare i propri tempi; un mio amico, bravo ragazzo, raccontò alla nonna di mia moglie, quasi novantenne, tutta la maratona di Reggio Emilia, dandogli i tempi di passaggio! Come giudichereste un titolare di un negozio che ogni volta vi racconta quanto ha incassato nella giornata, suddividendo gli incassi per periodi del giorno o per articoli? Eppure molti runner fanno così. Se succede occasionalmente, può avere un senso contingente a una certa discussione, ma se viene fatto “normalmente” indica la forte necessità di far sapere all’altro quanto si vale (e con quel valore entrare a far parte di un gruppo con cui socializzare) e come lo sport sia tutta la vita (anche se a volte ciò è fermamente negato: in realtà il runner crede di avere una vita interessante, ma, nonostante questo, non riesce che a raccontare agli altri che di corsa, mostrando di fatto che inconsciamente il resto “conta veramente poco”).
Lo sport non deve servire per avere successo – Altro punto dolente è la ricerca del risultato (assoluto o personale) con la stessa determinazione con cui, per esempio, nel campo del lavoro si ricerca il successo. Il runner basa la propria strategia sportiva sull’aver raggiunto un certo risultato che lui reputa buono (ma che, tranne che nel professionista, è oggettivamente mediocre). Per capire quanto questo atteggiamento possa essere psicologicamente fragile basti pensare a chi poggia la sua soddisfazione esistenziale sull’aver fatto o no una certa carriera.
Se è normale che per ogni runner ci sia la fase del recordman (come è normale che in un certo lavoro si voglia guadagnare il più possibile), quello che è anomalo è l’esagerato significato del risultato che diventa condizione necessaria per fare sport. Non a caso alcuni vanno alla ricerca della loro dimensione in molti sport a riprova del fatto che cercano dove emergere più facilmente.