Le inibizioni sessuali di una persona si possono misurare vedendo come reagisce (o come ipoteticamente reagirebbe) di fronte al concetto di stupro. Ancora oggi si considera questo fatto gravissimo (e lo è), soprattutto per le conseguenze psicologiche che esso comporta. I media continuano ad amplificare questa visione e molti ormai ne sono assolutamente convinti, tant’è vero che una donna stuprata è messa in difficoltà anche dall’atteggiamento di chi le sta intorno che, con fare imbarazzato, triste, confuso, cerca di darle qualche parola di conforto (la frase più stupida di un’amica a chi le confessa di essere stata stuprata è: “Oh, che cosa terribile!”). Questo atteggiamento non fa altro che provocare altri traumi psicologici (la nostra amica dovrebbe dire: “Non preoccuparti. Vedrai che riuscirai a farlo condannare”).
In realtà, se valutiamo le cose dal punto di vista della qualità della vita, non c’è alcun motivo di portarsi dietro per tutta l’esistenza il trauma di uno stupro.
Lo stupro è una rapina, non necessariamente un trauma psicologico permanente.
C’è trauma psicologico permanente se la persona è convinta che il sesso vissuto in modo non pulito, non legato all’amore, non legato a una propria precisa scelta sia da condannare; c’è trauma sostanzialmente se la donna in qualche modo si sente colpevole di aver vissuto un’azione peccaminosa. Scusate il gioco di parole, ma
se non si ha colpa, perché sentirsi in colpa o sentirsi frustrata da questa terribile esperienza?
Ovviamente, se avviene in condizioni drammatiche (come una rapina, per esempio aggredita in casa propria da uno sconosciuto) può generare un trauma psicologico, ma esso dovrebbe derivare più dalle implicazioni sulla propria sicurezza che da quelle sessuali. Per esempio, per capire il grado di inibizione di una donna basta chiederle se preferisce:
- Essere violentata, senza conseguenze fisiche, da un amico con il quale era uscita per una cena.
- Subire una rapina dove si prende una pallottola che la costringe a letto per oltre sei mesi.
Da un punto di vista esistenziale dovrebbe essere chiaro che è decisamente preferibile la prima soluzione e chi preferisce la seconda ha una visione decisamente troppo inibita del sesso, con una preoccupante ipervalutazione del concetto di intimità.
Dovrebbe esserci rabbia verso lo stupratore, ma non disperazione per la propria condizione. Lo stupratore ha rubato l’intimità della vittima come se avesse scippato una preziosa collana di diamanti. Chi subisce una simile rapina non si sente colpevole, non si sente sporco; se è sufficientemente forte, non si sente traumatizzato per mesi o per anni (se è debole anche una rapina può lasciare il segno, spesso per l’inconscia certezza che si possa ripetere). Va alla polizia e denuncia la brutta esperienza subita affinché il colpevole sia preso e punito.
So che molte donne non saranno d’accordo, ma le invito a riflettere sul fatto che questo paragrafo non vuole difendere gli stupratori, anzi. Si propongono una pena esemplare (oggi molti stupratori sono condannati a pene più miti di un criminale che rapina una gioielleria) e una visione dello stupro in cui la donna finalmente è libera di non sentirsi più colpevole e non viene, indirettamente, colpevolizzata.
Consideriamo un processo per stupro. In molti casi l’avvocato della difesa farà di tutto per screditare la donna e far credere alla giuria che fosse consenziente; la donna può replicare fermamente oppure, se è vittima dei condizionamenti sociali e teme di passare per una donna di facili costumi, si opporrà in modo agitato e confuso. Penso che il grado con cui una donna possa opporsi al suo stupratore in un processo dipenda dal proprio grado di inibizione; infatti per un’adolescente è molto più difficile che per una donna adulta, mediamente parlando.
Analogamente chi deve assistere una persona stuprata e prova compassione (anziché ripeto, trattarla come la vittima di una rapina) non ha ancora sviluppato una sessualità completa e sarebbe opportuno si astenesse da qualsiasi aiuto e/o commento.

Lo stupro è una rapina, non necessariamente un trauma psicologico permanente
Scenario: lo stupro
Maria è una brava e studiosa ragazza di 16 anni che un giorno va a una festa, invitata da un’amica; capisce subito che non tira una buona aria e se ne va, decidendo di tornare a casa da sola, a piedi. Incontra un vicino che si offre di darle un passaggio; le offre anche una bibita, la droga e la violenta. Quando la ragazza si risveglia, le racconta che si è sentita male e la riporta a casa. La ragazza resta incinta.
Prima versione (quella facile) – Abortire o non abortire? Chi è contro l’aborto ovviamente sceglierà no, ma chi è a favore ha modo di provare i suoi condizionamenti. Solo una persona molto condizionata potrebbe essere a favore dell’aborto in generale e poi, toccata sul personale, trovare cavilli e ragioni a favore del tenere il bambino, complicando di fatto la vita della giovane in modo irreversibile.
Seconda versione (quella difficile) – La ragazza non si accorge di essere rimasta incinta, forse inconsciamente non vuole accorgersene. Improvvisamente partorisce, ma, colta dal panico, abbandona il bambino. Rintracciata dalla polizia (che nel frattempo ha trovato sano e salvo il neonato), deve decidere: dare in adozione il figlio o tenerlo? La madre della ragazza preme per tenerlo (darebbe uno scopo anche a lei), la squadra minori, pur restando imparziale, evidenzia tutte le difficoltà della mancata adozione. Alla fine (siamo in un telefilm francese, non vaticano) la ragazza decide per l’affido e con un sorriso consegna il bambino alla coppia che l’adotta.
Questa è la soluzione moderna che rispetta la qualità della vita della giovane (che non deve farsi violenza e accettare qualcosa di non voluto), del bambino (che difficilmente potrebbe non “sentire” che è “nato per caso”), della coppia che “vuole” un bambino.