Nel linguaggio comune si parla spesso di soddisfazione: il mio lavoro mi dà molte soddisfazioni, i figli danno soddisfazioni, un matrimonio soddisfacente ecc.
Per il Personalismo questo atteggiamento è un interessante punto di partenza di uno studio più approfondito. Perché non si usano le parole felicità, felice ecc.? Probabilmente perché il termine soddisfazione indica un bilancio largamente positivo, ma non del tutto positivo, una votazione da 7 o da 8 al massimo, spesso con punte verso la vetta e poche cadute in basso, mai totalmente traumatiche. Il lavoro per esempio stressa, i figli danno preoccupazioni, nel matrimonio c’è qualche difficoltà (“ma chi non le ha” è la stupida frase, indice di una cattiva comprensione del mondo).
Di solito chi si esprime “per soddisfazione” ritiene di aver ottenuto il massimo che si poteva ottenere, ma spesso non è che vittima dei condizionamenti subiti che gli impediscono di capire che poteva avere molto di più perché
la vita non è automaticamente sinonimo di problemi.
Chi descrive la propria vita “per soddisfazioni” anziché “per felicità” è spesso un sopravvivente (se le cose vanno mediamente bene) o un insoddisfatto (se per l’appunto non ha grandi soddisfazioni!). Di solito ha un’autostima basata sui risultati oppure è un “bravo ragazzo” che accetta tutto anche quando i risultati non arrivano, senza per questo ritenersi un fallito (la sua autostima si poggia sui condizionamenti subiti che altri gli passano come valori morali: un sano lavoro, una famiglia o la religione).
Soddisfazione e sacrifici
Per capire come parlare per soddisfazioni sia limitante la qualità della vita è necessario capire che il contraltare delle soddisfazioni sono i sacrifici. Il campione olimpico dopo la vittoria può parlare di sacrifici necessari per arrivare sul gradino più alto, ma lo fanno anche i genitori che di fronte a figli tutto sommato positivi ricordano i sacrifici fatti per allevarli, lo fa anche chi è arrivato a una certa posizione e ricorda i sacrifici della gavetta ecc. Non è difficile capire che i sacrifici sono in controtendenza con le soddisfazioni e che il bilancio esistenziale complessivo è, se va bene, solo marginalmente positivo perché i momenti belli delle soddisfazioni vengono spenti dai momenti negativi dei sacrifici. Un po’ come comprare un’auto nuova: si è soddisfatti e quel giorno è positivo, ma se ci è costata un anno di lavoro, come dimenticare i sacrifici fatti per averla? Infatti, non a caso, la soddisfazione dura poco!
Molti obbietteranno che non è possibile una vita senza sacrifici (e ciò renderebbe lecito ragionare in termini di soddisfazioni), ma non è così.

La soddisfazione è uno stato emotivo solo temporaneo che non può portare alla felicità
Pensiamo a un vero oggetto d’amore; supponiamo che Tizio ami moltissimo la corsa, che si alleni anche quando piove a dirotto, che gareggi arrivando stremato alla fine di una maratona. Tizio potrebbe dirci che la corsa gli dà tante soddisfazioni, ma che deve fare molti sacrifici. Una tale posizione ci porterebbe a ribattere immediatamente: “scusa, ma perché allora corri, se ti pesa così tanto?”. E avremmo ragione: Tizio ragiona solo in termini di soddisfazione e la corsa è un condizionamento (visibilità sociale) piuttosto che un oggetto d’amore. Molti altri sportivi invece non tireranno mai in ballo i presunti sacrifici perché per loro la fatica non è un sacrificio, ma una naturale amica di ciò che amano, diventa il mezzo per fortificarsi e alla fine si domina. Per loro la corsa è veramente un oggetto d’amore.
Insomma, quando si parla di sacrifici (chiedetevi sempre “ma chi me lo fa fare?”), si è di fronte a qualcosa che si vive come un condizionamento impostoci da altri (famiglia, società, religione) e in cui noi cerchiamo di lenire gli aspetti negativi con i risultati.