Il patosensibile è un soggetto che non riesce a elaborare un sufficiente distacco dal dolore che ha attorno, pur non essendo coinvolto direttamente.
Patosensibile è un neologismo del Personalismo. Il Personalismo definisce tre mondi: quello dell’odio (sperabilmente vuoto), quello dell’amore (sperabilmente ricco di persone a noi vicine) e quello dell’indifferenza (che con parole molto dure potremmo definire “degli estranei”). Verso questo mondo non si può essere coinvolti emotivamente più di tanto; invece i patosensibili sono coloro che “soffrono con l’altro”, spesso pur “non conoscendolo” minimamente. Di questa sofferenza non esiste nessuna giustificazione, né teorica né pratica.
In genere la patosensibilità non è una personalità dominante, nel senso che un minimo grado di patosensibilità è in tutti noi. In alcuni soggetti però diventa prioritaria e ne condiziona moltissimo la vita. Di norma è una deformazione di altre personalità (irrazionali, mistici, deboli, fobici), originatasi dall’estrema priorità che il soggetto dà al mondo neutro, quello dell’indifferenza.
La considerazione che condanna la patosensibilità è che, se è giusto soffrire ogni volta che si vede o si ha coscienza del dolore, allora la nostra vita è dolore e la felicità è impossibile. Se provassimo gioia o tristezza per qualcosa che accade a persone che nemmeno conosco, sarebbe la fine: la mia vita sarebbe vissuta in funzione delle notizie dei telegiornali. Forse che dovrei piangere per due ostaggi uccisi e non per quattro giovani vite stroncate in un incidente del sabato sera? E perché non piangere per tutti coloro che stanno soffrendo in un letto di ospedale, vittime di un male incurabile, magari bambini di pochi anni? Insomma, il dolore è ovunque: che diritto ho io di sceglierne uno migliore di altri? Ma soprattutto:
poiché so che il dolore esiste ed è dappertutto, che senso ha addolorarsi solo quando lo si vede e dimenticarlo quando non lo si vede, magari divertendosi?
Piuttosto ipocrita, no? Se il patosensibile fosse coerente, la consapevolezza che in questo momento c’è sicuramente qualcuno che sta morendo, che sta soffrendo ecc. dovrebbe renderlo continuamente triste.
Il patosensibile risolve i problemi etici della sua esistenza con massime che a lui sembrano di una profondità estrema, inattaccabili e “scontate”:
- ama il prossimo tuo come te stesso;
- non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te;
- la vita è sacra ecc.
Il vero problema è che non sa uscire dalle contraddizioni logiche che tali frasi portano con sé, soprattutto in occasione di conflitti peraltro non sempre ipotetici. Per chi fosse interessato ai problemi di coerenza che tali massime generano, rimando alla pagina sul prossimo.
Patosensibilità ed empatia
La patosensibilità non deve essere confusa con l’empatia (la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva), ma piuttosto con la simpatia (da syn- “insieme” e pathos “sofferenza o sentimento”).
Nel linguaggio comune, anche da addetti ai lavori, si è generato un grande equivoco sulla parola simpatia (usata solo come apprezzamento verso qualcosa o qualcuno) ed empatia che, appunto, viene confusa con la patosensibilità, mentre, per permettendo l’empatia di capire benissimo la situazione non c’è nessun sentimento emotivo.
Autostima e patosensibilità
In molti patosensibili la patosensibilità è fondamentale per la propria autostima: sentirsi buoni o apparire buoni (buonismo) dà loro quei valori morali che li “fanno sentire a posto”. Per un’autostima che deriva dal dentro di sé non ci sarebbe nulla di male, se non che, per sentirsi a posto, devono… soffrire!
Così, anche se positivi, non riescono a godere pienamente delle gioie del mondo perché le macchie e le ombre del dolore escono a tratti a oscurare i loro pensieri e le loro azioni. In una versione moderna della novella pirandelliana In albergo è morto un tale, se nell’albergo dove soggiornano muore improvvisamente un ospite, si asterranno quella sera dal vedere un film comico o non ce la faranno a gioire per la partita di calcio della squadra del cuore.
Le tipologie di patosensibili
Esistono due tipologie principali di patosensibili: l’idealista e l’ipocrita.
L’idealista – Il patosensibile idealista è una persona che ha razionalizzato la sua patosensibilità (infatti spesso non si ritiene nemmeno patosensibile); non soffre più di tanto per il dolore che è nel mondo perché tiene a bada il suo senso di colpa per la sofferenza altrui con la sua etica (per esempio, è anche sempre pronto a giustificare il male fatto dagli altri, è o vuole apparire una “brava persona”). Spesso sente come colpa anche le condizioni facilitanti e quindi tende a rifiutarle, soprattutto la ricchezza. L’idealista ha elaborato tutta una serie di teorie più o meno articolate per dimostrare a sé stesso (prima che agli altri) che la sofferenza che avverte nel mondo non è colpa sua. Ha elaborato una sua morale le cui basi sono circa queste:
Ovviamente è impossibile non creare nessuna sofferenza nell’ambiente che ci circonda. Si tratta di avere un atteggiamento equilibrato bilanciando la sofferenza che inevitabilmente si crea con le necessità fisiche e psicologiche legate al vivere. L’etica consiste nell’arte di avere un modello di vita che provochi la minore sofferenza all’ambiente che ci circonda massimizzando al tempo stesso la felicità personale.
Questa base di partenza può essere condivisa da tutti, ma… non serve a nulla. Leggiamo attentamente la definizione e scopriremo che ognuno può interpretarla a suo modo. Immaginiamo tutto graficamente, una linea (segmento dell’egoismo) sulla quale stanno le sofferenze dell’ambiente esterno; a un capo si parte da sofferenze sconosciute come chi muore a causa di una guerra di cui nessuno parla, poi procedendo sulla linea, sofferenze sentite da altri, soprattutto dai media, poi quelle di persone con cui si viene in contatto che non fanno parte del nostro mondo dell’amore, infine le sofferenze di chi amiamo. Il principio sopraesposto non vuol dire altro che decidere di porsi in un certo punto (punto Z) della linea, verso destra o verso sinistra, ma dove situarsi, questo il principio non lo dice e ognuno lo interpreta in base alla propria sensibilità. Così c’è chi è sensibile alla sofferenza dei bambini che muoiono di fame e poi vive comunque ben al di sopra della soglia della povertà oppure chi è contro la caccia e magari non è nemmeno vegetariano. Il patosensibile è tale perché in questo suo posizionamento tiene in eccessivo conto la sofferenza dell’ambiente esterno, ma in sostanza è un falso santo perché non avverte l’ipocrisia di un punto Z puramente soggettivo, scelto in funzione della qualità della vita, sua e dei suoi cari. Magari è disposto a rinunciare a molte più cose della media della popolazione, ma se ne tiene ben strette altre, insomma non è certo un novello San Francesco!
Per una persona equilibrata il posizionamento è dato dalla qualità della sua vita, cioè dalla massimizzazione della propria felicità; è la società con le leggi che impedisce che questi posizionamenti egoistici possano degenerare in conflitti fra individui: essere criminali e rapinare una banca per arricchirsi, al di là di ogni considerazione etica, non ha semplicemente senso perché “non conviene”. Purtroppo il patosensibile è invece convinto che ogni sofferenza inflitta (quindi anche quelle legali, magari involontarie o nella necessità delle cose) si ritorca a mo’ di boomerang attraverso una rete di interconnessioni profonde e invisibili. Anche in questa convinzione è evidente la priorità data alla sofferenza anziché alla felicità personale e non comprende la vera soluzione. Infatti il patosensibile idealista trova egoistica la teoria dei tre mondi perché ritiene assurdo non provare nulla per chi è nel mondo dell’indifferenza, non riesce a comprendere come ci possano essere persone così insensibili da non sentire quel macigno della sofferenza del mondo che lui, più o meno inconsciamente, sente sopra di sé. Non comprende che se ognuno amasse veramente il proprio mondo dell’amore, poiché i mondi dell’amore dei singoli individui sono fra loro parzialmente sovrapposti, l’onda d’amore si allargherebbe a tutto il mondo con un effetto positivamente devastante (Ved. più avanti La ola dell’amore).
Esistono due sottotipologie definite dal grado di azione dell’idealista.

La patosensibilità non deve essere confusa con l’empatia (la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva), ma piuttosto con la simpatia (da syn- “insieme” e pathos “sofferenza o sentimento”)
L’idealista teorico è colui che “a parole” ama tutto il mondo, ma in pratica non fa granché per aiutarlo. Poiché l’amore si dimostra con le azioni, è una versione nobile del patosensibile ipocrita. Sicuramente è persona gentile, ogni tanto dà l’elemosina a una persona che soffre, porta i suoi vestiti vecchi ai poveri, partecipa a un incontro sulla pace, magari adotta un bambino a distanza. Il suo impegno in termini economici è minimo rispetto alle sue possibilità (è un teorico anche il mecenate che dà in beneficenza la millesima parte di ciò che guadagna in un anno) e lo è pure quello in termini di tempo. La sua azione non è più risolutiva di quella di chi si impegna per favorire la solidarietà come sentimento sociale (che senso ha dare spontaneamente l’1% del proprio reddito? Non è più giusto battersi perché per solidarietà sociale tutti lo facciano?), ma lui si sente “migliore”.
Il pratico è invece colui che quotidianamente fa qualcosa per il mondo dell’indifferenza (esempio classico: madre Teresa di Calcutta), per esempio il medico che si sottopone a massacranti turni di lavoro, ben più di quello che gli è richiesto dal livello standard della sua professione. In questo secondo caso siamo di fronte a sindromi del missionario, cioè a persone che non hanno un proprio mondo dell’amore (e trasformano il mondo neutro nel proprio mondo dell’amore, ma non si può certo pretendere che tutti lo facciano) oppure trascurano il proprio mondo dell’amore a favore di quello neutro.
L’ipocrita – Il patosensibile ipocrita è la versione moralmente discutibile del patosensibile idealista, tanto che in alcuni casi può esserne una degenerazione (pensiamo agli idealisti che sono pronti ad aiutare i bisognosi e poi si scannano nelle riunioni di condominio con il vicino che fa questo o quello).
L’ipocrita vive più di buonismo che di simpatia altruistica.
Gli ipocriti in genere sono associabili alle altre personalità, deboli, sopravviventi, insufficienti, semplicistici in primis. Il meccanismo è semplice, quello che è richiamato dal noto detto mal comune, mezzo gaudio. Il soggetto è patosensibile perché si immagina nella stessa condizione di chi è oggetto della sofferenza. Un debole, per esempio, potrà avere una patosensibilità esagerata per bambini e per anziani o più modernamente per gli animali: pensiamo al mendicante che per raccattare qualche soldo in più si “dota” di un cagnolino strappalacrime; il mio springer ha occhi talmente cadenti che gli danno un’espressione tristissima anche quando è felicissimo: con lui penso che riuscirei a ricavare interessanti redditi esentasse. Alcuni fobici invece hanno una patosensibilità esagerata a causa della loro paura del dolore: la morte, le catastrofi ecc. sono ciò che fa scattare la patosensibilità. Non per un reale interessamento al soggetto che subisce il dolore (altrimenti sarebbero patosensibili idealisti), ma per l’inconscia domanda: “e se ci fossi stato io al suo posto?”.
Il patosensibile ipocrita spesso elimina vigliaccamente la vista del dolore (perché così può continuare a credere che la sua occasionale commozione di fronte a una vicenda triste che non può eliminare sia alta sensibilità d’animo), lo fugge. Non tollera il sangue, la morte, gli dà immensamente fastidio sentire parlare di un funerale o di una malattia incurabile. I media questo lo sanno benissimo e per catturare questa parte della popolazione costruiscono storie che strappano lacrime perché ormai dalla televisione e dai giornali non si può sfuggire. Così facendo, però, l’ ipocrita fa sì che l’informazione discrimini il dolore in dolore vendibile (quello che fa più audience) e dolore non vendibile. La retorica serve poi per foraggiare la patosensibilità degli ascoltatori. Vi siete mai chiesti perché nell’elenco dei morti si differenzia spesso il numero dei bambini e delle donne? Perché sembrano più indifesi e colpiscono maggiormente il patosensibile. Sono “innocenti”. Perché forse un ragazzo di 18 anni che è rimasto vittima di una bomba mentre andava a trovare la sua ragazza non era innocente? Si dice: “hanno una vita davanti”. Forse che un uomo adulto di 25 anni non ce l’ha?
Alcuni patosensibili ipocriti sono tali anche nel bene: paesi interi che brindano perché uno sconosciuto (magari il riccone del paese) ha vinto al Superenalotto. Ma perché si deve brindare? Donne in lacrime quando vedono uscire una sposa da una chiesa. Ma perché si deve piangere di commozione? Magari si sono sposati perché lei è incinta, lui ha già l’amante e fra due anni divorzieranno…
La diagnosi differenziale
Difficile confondere i patosensibili con altre personalità perché la definizione ha un campo d’azione (il dolore) che non interagisce con le altre personalità. Come spiegato nella descrizione delle tipologie, è possibile che la patosensibilità sia associabile più frequentemente ad altre personalità critiche che ad altre, ma non si deve commettere l’errore di pensare che queste personalità portino necessariamente con sé una certa patosensibilità (fra l’altro perché le personalità del Personalismo non sono dipendenti): esistono deboli patosensibili e altri no; mistici patosensibili (un missionario che sacrifica la sua vita per non abbandonare la sua missione e i suoi malati durante una rivolta) e altri no (una suora di clausura) ecc.
Interessante notare che il patosensibile è quasi sempre globale, ma esistono anche patosensibili parziali:
- per i poveri
- per i malati
- per gli anziani
- per i bambini
- per gli animali.
La qualità della vita del patosensibile
Gli idealisti vivono bene o male a seconda del loro carattere: gli ottimisti profondono infinite energie nella lotta al male e questo li appaga; i pessimisti vedono la loro vita avvelenata dal fatto che il male continua a esserci, nonostante i loro sforzi. Gli idealisti possono avere un mondo dell’amore molto vuoto; è questa situazione che li spinge verso il mondo dell’indifferenza piuttosto che a cercare di riempire il proprio mondo dell’amore con affetti profondi e stabili.
Il patosensibile idealista che è schifato dall’egoismo presente nel mondo dovrebbe riflettere: vede egoismo e menefreghismo dappertutto; ma se gli uomini sono così “cattivi”, che senso ha salvarne? È proprio certo che quelli che salverà gliene saranno grati e riceverà quell’amore che cerca? Oppure, come gli altri, non faranno altro che usare la loro forza ritrovata per scannarsi a vicenda? In realtà, le cose non sono così buie, stanno a metà strada tra l’egoismo e l’utopia del patosensibile.
La qualità della vita dei patosensibili ipocriti è determinata dai loro rimanenti pregi/difetti. La patosensibilità è una bomba che può esplodere a seconda delle vicende personali. Del resto pensiamo a come popoli diversi affrontano il rito della morte. Ricordiamo le preficae romane, donne pagate perché ai funerali piangessero, si strappassero i capelli e gli abiti, simulassero insomma dolore. Ancora oggi, da noi esiste l’assurda equazione che si soffre quanto più si piange. Presso altri popoli, il funerale è addirittura una cerimonia con cibo e musica.
Pensiamo a come si affronta tradizionalmente una malattia incurabile. E pensiamo come la affronta un medico come Patch Adams. Chi ha visto il film sa che il sorriso, e non la disperazione, dà forza e dignità.
I patosensibili spesso non fanno che mettere delle pezze al dolore. Essere distaccati dal dolore non significa non agire, ma significa semplicemente avere la forza di rimanere lucidi e operare al meglio. Quindi
azione, non disperazione.
E l’azione non può essere caoticamente individuale. Come non ci si può sostituire alla polizia per far trionfare la giustizia, così non ci si può sostituire alle istituzioni per far trionfare la solidarietà. Può sembrare assurdo avere fiducia nelle istituzioni, come duecento anni fa poteva sembrare assurdo averla nella legge. Ma la civiltà non fa nessun passo avanti se non ci si impegna a far funzionare meglio i governi anche dal punto di vista della solidarietà. Personalmente penso che non abbia senso un’azione che non sia politica; chi vuole risolvere problemi come la fame nel mondo, la povertà, l’emarginazione, deve fare pressione sulle istituzioni affinché questi problemi siano affrontati alla radice, affinché i Paesi ricchi aiutino quelli poveri, affinché cultura e progresso arrivino a tutti; del resto in un regime democratico il voto è lo strumento migliore per eleggere chi promuove interessi che ci stanno a cuore. Azioni individuali come adozioni a distanza (con una cifra che spesso non è che un centesimo di quello che si spende in lussuosi vestiti) o euro inviati con SMS in occasioni di catastrofi varie non sono che un modo di tacitare la propria coscienza “perché non si ha tempo” di fare di più.
Il test per i patosensibili
In genere il patosensibile offre una profonda resistenza al cambiamento. Per cercare di farlo riflettere, un semplice test.
Supponiamo che sia psicologicamente accettabile che si soffra per il dolore di uno sconosciuto. Quindi normale che di fronte a una tragedia in televisione si soffra. Però non esiste solo la televisione. Anche i giornali nazionali danno altre notizie tristi; giusto e normale soffrire anche per loro. Bene. Passiamo ai giornali locali che amplificano ulteriormente l’insieme delle notizie drammatiche.
Se il nostro patosensibile non si è ancora suicidato (“nel mondo c’è troppo dolore”), facciamogli una proposta. Appena arriva una notizia triste dagli ospedali, dalla polizia, dai comuni cittadini, non solo del suo Paese, ma di tutto il mondo, gli inviamo un sms con i dettagli.
Per coerenza, non potrà spegnere il telefono e incomincerà a ricevere sms. Anche in questo caso, a un certo punto, se non si sarà suicidato, sbotterà in un “ma basta! Lasciatemi vivere la mia vita!”. Ignorerà il dolore. Esattamente il comportamento di chi, quando c’è una tragedia in televisione, non essendo patosensibile, la accoglie come una notizia, ma senza coinvolgimenti emotivi. E allora perché non farlo da subito?
Egoismo e patosensibilità
Qual è la differenza fra l’egoismo e il non essere patosensibili? Avere un’interpretazione corretta dell’altruismo, dove i valori sono tre e quello intermedio è quello equilibrato: aiutare le persone per quanto ci danno per la qualità della nostra vita:
se si dà di meno si è egoisti, se si dà di più nei confronti del mondo dell’indifferenza si è patosensibili
(altruismo sociale; il caso del dare di più nei confronti del mondo dell’amore riguarda altre personalità critiche, non la patosensibilità).
Spesso l’egoista ha un mondo dell’amore vuoto, non ama nessuno al di fuori di sé o, al più, usa pochissima bontà nel suo mondo dell’amore. L’equilibrato invece ha un mondo dell’amore ricco, contenente diverse persone cui dimostra il suo amore con le sue azioni.
La ola dell’amore
San Francesco e Madre Teresa di Calcutta sono spesso citati come esempi ideali cui l’uomo dovrebbe tendere. Ma chi vorrebbe una vita come la loro? Certo è facile avere degli alibi (“ho famiglia, come faccio a spogliarmi di tutto?”; alibi che curiosamente tirano sempre in ballo il proprio mondo dell’amore e un posizionamento puramente soggettivo sul segmento dell’egoismo), ma, anche se si rimuovessero gli alibi, pochissimi farebbero cambio. E allora perché non dirlo chiaramente che quelli non sono affatto esempi da imitare?
Molto probabilmente perché la patosensibilità vuole una soluzione e, non riuscendo a trovarla, si rifà sempre ai vecchi condizionamenti.
In realtà la soluzione esiste e si chiama ola (onda) dell’amore. La prima volta uso il termine spagnolo perché rispetto a quello italiano rende meglio (fare la ola) il propagarsi dell’effetto. Supponiamo che ognuno di noi definisca il proprio mondo dell’amore, cioè le persone che migliorano la qualità della sua vita. Il mondo di Tizio è in parte sovrapponibile al mondo di Caio, ma messi assieme fanno un mondo più grande, spesso molto più grande.
Immaginiamo ora che l’operazione si estenda come una grande onda a tutti gli uomini. Cosa accadrà? Che ognuno di noi, a meno di non essere il peggior criminale o una persona assolutamente impossibile, sarà compreso nell’insieme globale. Se tutti si adoperassero a far vivere bene chi è nel proprio mondo dell’amore, ecco che tutto il mondo vivrebbe meglio.
Il nostro scopo non è quindi di fare generici propositi di bontà e di santità e di amare (a parole) tutto il mondo, ma è quello di amare al meglio il nostro mondo dell’amore e di farci amare. Se tutti realizzassero questo scopo, l’onda dell’amore travolgerebbe il mondo.
Il vero (vero perché concreto, fattibile, non penalizzante) altruismo passa attraverso quattro stadi, gli ultimi tre dei quali rappresentano la bontà:
- avere un mondo dell’odio vuoto;
- costruire il nostro mondo dell’amore;
- gestirlo al meglio, dando amore a chi vi appartiene;
- insegnare agli altri come implementare i primi due stadi.
Chi li ha percorsi capisce che
aspirare alla santità è insulso, essere buone persone è il massimo dell’umanità.
L’utopia – La differenza fra l’onda dell’amore e la soluzione del patosensibile idealista è sostanzialmente nella concretezza. Anche il patosensibile può sostenere che la soluzione dell’onda è utopistica, ma nessuno può mettere in dubbio che lo è molto meno che pretendere che tutti si vogliano bene e che i cattivi e le sofferenze non esistano più. La sostanziale differenza è che al patosensibile idealista interessa intimamente solo una società ben fatta, senza ingiustizie, perfetta; a chi è concreto interessa soprattutto migliorare la società attuale, un obiettivo realistico, non utopistico.
La solidarietà – Tutti dovremmo trovare intollerabile la sofferenza altrui; è possibile farlo senza diventare patosensibili? Sì. Per evitare di diventare un idealista pratico (e distruggere la mia vita) e per evitare l’ipocrisia dell’idealista teorico ho proposto la solidarietà come sentimento sociale. Non vedo altre soluzioni intelligenti. Io e tante altre persone abbiamo un mondo dell’amore ricco, perché dovrei trascurarlo per dare ogni giorno (se lo faccio saltuariamente divento un teorico piuttosto ipocrita) spontaneamente (cioè al di fuori della mia professione) qualcosa di tangibile al mondo neutro?
Psicologi e patosensibilità
Proposi il concetto di patosensibilità nel 2003. Finalmente oggi anche alcuni psicologi incominciano ad apprezzarlo. Il concetto esprime in modo analitico e razionale ciò che anche altri (invero i più coraggiosi, senza timore di andare controcorrente) hanno espresso semplicemente dicendo che “non si deve essere troppo empatici” (in realtà, dovevano usare il termine simpatia, non empatia!).
Per esempio, secondo lo psicologo di Yale, Paul Bloom, il mondo ha bisogno di un po’ meno empatia (intervista alla Boston Review, settembre 2014), in contrasto con l’affermazione di Barack Obama sul “deficit di empatia”.
Bloom ci rimanda all’economista Thomas Schelling: “se una bambina di sei anni con i capelli chiari ha bisogno di qualche migliaio di dollari per sottoporsi a un intervento che prolungherà la sua vita fino a Natale, arriveranno fiumi di donazioni. Se si viene a sapere che senza un aumento dell’IVA gli ospedali del Massachusetts non avranno abbastanza fondi e questo provocherà un leggero aumento dei decessi evitabili, nessuno verserà una lacrima”.
Bloom continua citando le ricerche che mostrano che un eccesso di empatia può anche danneggiare chi la prova: è stato dimostrato che a volte provoca esaurimenti nervosi e depressioni, che non rendono certo più capaci di aiutare gli altri.
Secondo Bloom, anziché essere empatici dobbiamo essere freddi e razionali: un malato che si sta sottoponendo a una cura per il cancro non ama l’eccesso di empatia da parte dei medici, ma “preferisce quei dottori che sono calmi quando lui è ansioso, fiduciosi quando lui è incerto”.
Insomma, come spiega il Personalismo, azione, non disperazione.