Nel suo significato più conosciuto (decisamente diverso da quello originario che riguarda l’etologia, la scienza che studia il comportamento animale), il mobbing è una sistematica persecuzione esercitata sul posto di lavoro da colleghi o superiori nei confronti di un soggetto.
Quella appena data è la definizione classica che non è estesa ad altri ambiti come la famiglia o la scuola (dove peraltro si confonde spesso con il bullismo)
La definizione è chiara, peccato però che i termini “sistematica” e “persecuzione” non siano affatto facili da definire in termini di legge, tanto che la maggior parte dei Paesi non ha una normativa efficiente. Situazioni simili come il bullismo o il nonnismo* sono ben più facili da inquadrare perché a un osservatore esterno sono evidenti le azioni illegali o comunque non conformi all’ordinamento dell’ambiente in cui vengono effettuate. Per altri reati, come lo stupro, esistono addirittura prove oggettive del fatto e chi si difende può giocare al massimo sul consenso della vittima.
Perché il mobbing è di difficile interpretazione? Perché ogni sua variante potrebbe apparire perfettamente lecita. Facciamo alcuni esempi.
- Chi è soggetto a mobbing viene di solito emarginato. Ma si tratta di un’emarginazione reale oppure è il soggetto che per carenze della sua personalità tende a isolarsi?
- Chi è soggetto a mobbing si sente perseguitato. Ma la persecuzione è reale oppure è il soggetto che soffre di mania di persecuzione?
- Chi è soggetto a mobbing subisce spesso violenze verbali. Ma i giudizi ricevuti sono vere violenze o è il soggetto che è troppo permaloso?
- Chi è soggetto a mobbing vien spesso scavalcato ingiustamente sul piano professionale e della carriera? Ma meritava veramente un avanzamento o è il soggetto che si sopravvaluta?
Come si vede, il mobbing è difficile da definire perché l’ambiente lavorativo non ha chiare regole che definiscano i corretti comportamenti fra colleghi e fra inferiori e superiori. Il diritto del lavoro in realtà non ha fatto che complicare le cose perché, nel tentativo di fissare tali regole, ha anche incentivato a muoversi nelle zone d’ombra (cioè non chiaramente definite dalla legge) per ottenere ciò che è stato espressamente vietato.
- Così il superiore che vuole licenziare un dipendente, secondo lui non produttivo, ricorre al mobbing perché non può farlo esplicitamente: spera che il dipendente se ne vada, sfiancato dalle pressioni.
- Analogamente il datore di lavoro che è abituato a lavorare anche 12 ore al giorno, tratterà come un lazzarone quel dipendente che non vuole stare un minuto in più delle canoniche otto ore.
- I colleghi che speravano in una promozione faranno mobbing sul malcapitato nuovo arrivato, semplicemente perché è più bravo di loro. Ecc.
Sostanzialmente il mobbing è lo scontro di due personalità, una delle quali (quella dominante) può essere rappresentata anche da un gruppo di soggetti. Va da sé che se la personalità oggetto di mobbing non è equilibrata, sarà ben difficile che sopravviva. Se ha una personalità debole, se è introverso, se è indeciso ecc. non avrà sufficiente capacità di reazione e spesso, purtroppo, sarà sopraffatto.
Infatti l’unico modo per smontare il mobbing è di essere equilibrati e possedere una grande forza calma, con la quale dialogare con il proprio “persecutore”. Occorre
smontare il mobbing portandolo alla luce.
Cosa vuol dire portarlo alla luce?

In Italia si inizia a parlare di mobbing negli anni ’90 grazie allo psicologo del lavoro Harald Ege
Per esempio, nel caso 1 discutere con il superiore sul perché ci ritiene poco produttivi, facendogli comunque presente che se continua a farci pressioni perderà solo tempo, anzi rischierà di avere un sacco di problemi. Ovviamente la forza calma qui è d’obbligo perché la controparte deve capire che si sta dialogando, non si sta litigando, un dialogo che deve servire a migliorare le cose per entrambi.
Nel caso 2 non si devono avere problemi a spiegare che il lavoro è una condanna sociale; se uno sta sul posto di lavoro 12 ore o non è lavoro, ma una passione (ma non può pretendere che per tutti sia così) oppure, e spiace per lui, non ha altro nella vita. I concetti sono questi, ma, ripeto, occorre essere abili a dialogare senza provocare difese per risentimento. Ci si deve ergere sopra al proprio persecutore.
Così nel caso 3 basterebbe “acculturare” i colleghi su come diventare più bravi, cercando di spaccare il gruppo, stringendo alleanze ecc. Questo caso mostra come il portare alla luce il mobbing, dialogando con i persecutori con l’equilibrio della propria persona, ma anche con le capacità “politiche” di chi sa parlare senza offendere, renda l’ambiente di lavoro un’arena in cui ci si deve saper battere con le armi giuste. Proviamo a riassumerle:
- personalità equilibrata (e quindi grande autostima)
- forza calma
- capacità di dialogo senza provocare difese per risentimento
- abilità politica di capire i rapporti di forza all’interno del luogo di lavoro.
Purtroppo poche persone hanno queste qualità e il mobbing fa danni. La “necessità” di lavorare porta troppo spesso ad accettarlo come inevitabile, senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di cambiare lavoro (“sono ormai troppo vecchio”, “sono troppo giovane, dappertutto è così, occorre fare la gavetta”, “un lavoro che mi dà questo stipendio dove lo trovo?”, “e se poi non trovo lavoro?” ecc.).
L’inerzia che porta alla rassegnazione dovrebbe far spezzare un’ulteriore lancia in favore del reddito universale (o di cittadinanza che dir si voglia). Nel momento che il lavoratore può godere del reddito di cittadinanza (in sostituzione dell’ormai arcaico concetto di pensione) diventa molto meno “ricattabile”.
* Termine con il quale, in riferimento alla vita militare, si indicava il comportamento dei soldati prossimi al congedo (i “nonni”), i quali pretendevano di esercitare un’autorità vessatoria nei confronti delle reclute, in forza di un presunto potere derivante dall’anzianità di servizio. Ancora oggi, per estensione, il termine viene utilizzato per riferirsi a comportamenti analoghi.