Il corretto rapporto con la morte (o meglio, con l’idea della morte) è un fattore che influenza in maniera sensibile la qualità della vita e quindi è giusto che abbia un posto rilevante nella strategia dell’esistenza. Come affrontare lo scorrere del tempo non in una dimensione ultraterrena, ma durante la propria esistenza?
Sono innumerevoli le ricette contro la morte, ma poche funzionano veramente bene perché collegate a una personalità non equilibrata. Per il Personalismo il concetto di morte influisce sicuramente sulla religiosità di un individuo perché il modo più immediato che l’uomo ha avuto per limitare la morte è sempre stato quello di passare attraverso la religione.
La morte e la personalità
L’idea e la paura della morte riguardano soprattutto due principali personalità, il fobico (pensiamo a un ipocondriaco) e il vecchio. Nelle altre personalità l’idea è a priorità equivalente alla presenza delle due personalità sopraccitate.
Ovviamente non tutti i fobici danno un’altissima priorità all’idea della morte poiché le loro paure in genere sono terrene, il rapporto con la morte è determinato dalle altre personalità che affiancano quella principale. Solo pochi fobici fanno della morte la condizione cardine della loro personalità. Per esempio, gli ipocondriaci mettono in atto tutta una serie di precauzioni per fuggire la malattia. Poiché non si può rendere definitiva la fuga dalla morte, l’ipocondriaco vive sempre in un’ansia non dominata e non dominabile.
Nel vecchio sono le sottopersonalità a stabilire il rapporto con la morte, ma in genere questa personalità funziona da amplificatore degli effetti negativi, perché l’idea della morte è presente in modo costante nella sua vita. Spesso questa amplificazione nei vecchi si trasforma nel tentativo di entrare in sintonia con le “immagini di morte”.
Le altre personalità – Lo svogliato, l’insufficiente, il sopravvivente, l’indeciso e il semplicistico tendono ad accettare passivamente le indicazioni delle Chiese. Sono in genere neofarisei e la religione serve per allontanare il pensiero della morte, quasi un rito scaramantico. Nel momento stesso che la fuga religiosa non è possibile, scattano comunque ansia, paura, terrore.
L’irrazionale ha comportamenti diversi a seconda di ciò che causa la sua mancanza di razionalità; alcuni, dotati di scarso spirito critico, sono ottimi credenti, altri, più critici, sostituiscono la religione con riti e credenze soprannaturali che in qualche maniera “gestiscono la morte”.
Il mistico è assolutamente certo di una vita nell’aldilà, salvo poi incorrere in tutti i problemi di una religione acritica.
A seconda della sua educazione e dell’elaborazione razionale dell’esistenza, il debole può essere un buon credente, un neofariseo o una persona che non riesce a risolvere il problema e cerca di accantonarlo come può.
A dispetto del nome, Il dissoluto ha una visione rassegnata della morte; non sapendo gestire il proprio corpo spesso l’accetta, al più pretendendo di vivere alla grande il tempo che gli è concesso.
Il violento criminale non si cura del pensiero della morte perché fa parte del gioco, a volte per sostenere la sua violenza si convince di essere immortale; in quello non criminale sono le sottopersonalità a decidere il rapporto.
Nel patosensibile è presente la fuga da tutto ciò che ricorda la fine (i carri funebri, i cimiteri, gli ospedali ecc.), mentre nei vecchi in un tentativo di entrare in sintonia con le “immagini di morte”.
Il romantico cerca di combattere la morte con il suo ideale, spesso illudendosi che sia più forte di essa. Per esempio il Romantico artista cercherà di superare la morte con la presunta immortalità dell’arte. Da studiare il Romantico temerario, per il quale l’ideale è rappresentato proprio da una vita vissuta al massimo, da immortale; esso sarà portato ad affrontare la morte con disprezzo e coraggio (?), non capendo che mettere in gioco la propria vita non è coraggio, è solo stupidità.
Se l’insoddisfatto è spesso rassegnato nei confronti della morte, l’insofferente vive in modo drammatico la mancata aspettativa di una vita eterna quanto più l’età avanza. Il problema non si pone da giovane (sovrastato da altre mancate aspettative), mentre diventa pressante e devastante da anziano.
NOTA – Nei soggetti con personalità principali che non elaborano una gestione diretta della morte, studiarne il rapporto può aiutare a definire meglio le sottopersonalità.

Il rapporto con la morte può essere fortemente influenzato dal contesto culturale a cui si appartiene
La morte: come affrontarne dunque l’idea?
La si affronta con dignità. Personalmente ritengo che la scorciatoia della religione classica o della droga per affrontare il mondo siano equivalenti: non dignitose. La dignità di vivere diventa invece un lasciapassare per un eventuale aldilà. Se Dio c’è, non può che apprezzare il fatto che io viva con dignità e non mi inventi falsi dei e riti tutto sommato pagani per ingraziarmeli. Parafrasando, il regno dei cieli è di chi ha la dignità di vivere con le sue forze, non di chi, credendo, pretende di avere diritto a un aldilà.
Cosa vuol dire dignità? Vuole dire amore e semplicità.
Amore – Come è detto nel tema sulla religione, affrontare il proprio destino da soli, senza creare Dio. Praticamente vuol dire vivere la vita amando.
Se ami, non hai tempo di pensare alla morte, la dimentichi.
Le persone più forti sanno che la morte c’è, che non è una cosa positiva, ma non hanno tempo di temerla perché non sanno quando arriverà, né di sprecare la loro vita nella disperazione: hanno qualcosa da amare e ciò spiega il fatto che sono in grado di dimenticare la morte (questo è importante!) perché sono interessati ad altro.
Il consiglio potrebbe sembrare una stupida scappatoia per chi è depresso di natura e non fa altro che pensare alla fine. Si pensi a chi festeggia l’anno nuovo: è felice e proiettato verso il futuro. A ben vedere si potrebbe obiettare che festeggiando l’anno nuovo, buttando via l’anno vecchio, si butta via un anno del proprio passato e quindi si festeggia un po’ della propria morte, ma queste considerazioni non si addicono a chi festeggia nuove speranze, nuove gioie: l’amore per la vita ha esorcizzato il tempo che passa.
Non so cosa ci sarà dopo, ma, se amo, mi impegno a vivere intensamente questa vita, poi si vedrà. Potrà sembrare superficiale, ma l’amore per le cose che si fanno deve essere così grande che perdere tempo a “sentirsi terribilmente soli di fronte al tema della morte” è un peccato, un peccato perché mentre si cade nell’angoscia, non si vede ciò che di bello si ha attorno e che si può vivere fino alla fine.
Semplicità – Nella società occidentale esiste un’insofferenza di base: l‘aspettativa dell’immortalità. Nel momento in cui questa non è esaudita, ecco che scatta la ribellione alla morte che il più delle volte si manifesta in una violenta reazione di dolore. Pensiamo a chi, di fronte a un lutto, lo accetta con estremo dolore, ma senza grandi manifestazioni esteriori e a chi invece si dispera, strappandosi i vestiti e i capelli. Nel primo caso c’è dignità, nel secondo no.
Affrontare la morte con dignità significa vedere sempre il bicchiere dell’esistenza come mezzo pieno.
Chi invece pretende di essere immortale o comunque pretende una vita lunga e senza dolore, all’idea della fine vede comunque il bicchiere sempre mezzo vuoto.
Dignità vuol dire credere fermamente che “è già bello che abbia vissuto”, non “è terribile che debba morire”.
Se hai vissuto intensamente ogni attimo dei tuoi anni, pochi o tanti che siano, la morte non fa paura perché oggi è un buon giorno per morire…
L’elaborazione del lutto
Spesso nelle disgrazie e nei momenti di dolore che seguono non si tiene conto di un fattore importantissimo, l’esperienza da altri. Se vedo dieci persone a cui sparano al cuore, nove muoiono e una no, posso pessimisticamente stabilire che chi riceve una pallottola al cuore muore. Più utile sarebbe capire come ha fatto la decima persona a sopravvivere. Potrei scoprire che indossa un giubbotto antiproiettile. Il Personalismo è proprio una sorta di giubbotto antiproiettile contro le avversità della vita, anche quelle più terribili. Quello che si deve comprendere è che se ci sono persone che reagiscono alle disgrazie, con forza e con coraggio perché non imparare da loro, anziché accettare le soluzioni di chi le vive peggio?
Per esempio, quando mi fanno l’esempio di una persona vicina che soffre sono quasi sempre malattie che riguardano i genitori. Il Personalismo insegna il distacco; è nella logica delle cose che un genitore invecchi e muoia e non si può certo soffrire per anni e distruggersi la vita perché un genitore soffre. Per approfondire.
Un esempio più drammatico è rimanere vedovi/e, magari lasciando figli in tenera età; il dramma è amplificato dal fatto che molti si sposano ritenendo che il matrimonio debba risolvere la propria vita esistenzialmente (romantici) ed economicamente (insufficienti). Per il Personalismo il matrimonio ha un senso se le persone sono già felici prima di sposarsi, il coniuge non è, come insegna il romanticismo, “ciò che ci cambia la vita”, “ciò che ci rende felici”. Se non c’è questa dipendenza è più facile superare un lutto, tant’è che molte persone ci riescono. Alla base del matrimonio deve esserci soprattutto il dare sé stessi all’altro, se poi il destino non è buono, deve aiutarci la consapevolezza di avere fatto del nostro meglio.
Così economicamente, prima di fare i figli, occorre analizzare la propria situazione economica. Se questa è drasticamente dipendente dal capofamiglia, beh allora questo è uno dei pochi casi in cui ha molto senso stipulare una polizza sulla vita: prevedere il danno fa parte della comprensione del mondo.
Infine si arriva al terribile dolore di una madre che non ha mai superato la morte di un figlio. Se non si ha la dignità di affrontare la morte non si è nemmeno in grado di superarla. Sovente questa dignità manca perché comunque abbiamo bisogno della persona amata e quindi più che amore è dipendenza. Chi non pretende l’immortalità per sé e per i suoi cari (cioè che la realtà si adegui ai suoi desideri) è conscio che il suo amore è dare il più possibile a chi ama come se venisse a mancare il giorno dopo. E ogni giorno che è con noi è gioia, è un regalo.
Per approfondire: La festa dei morti, I tori di Pamplona.