L’istinto materno che porta alla maternità ha sicuramente una componente biologica, ma è altresì vero che viene enormemente amplificato dai condizionamenti sociali.
In natura, la madre si prende cura dei cuccioli solo fino al momento in cui questi sono capaci di nutrirsi autonomamente e vengono lasciati a sé stessi in uno stato ancora molto lontano dalla maturità fisica (analogo ai nostri bambini di 5-6 anni).
Appare quindi evidente che l’istinto materno nell’uomo è prolungato nel tempo da condizionamenti sociali che portano la madre a vedere il figlio come “il suo bimbo” anche quando questi ha 30 anni! Non a caso il distacco è uno dei passi più difficili da realizzare nel rapporto figlio-genitore.
I condizionamenti
I condizionamenti sociali iniziano fin dall’infanzia quando alle bambine si danno bambole come gioco preferenziale; continuano poi con la trasmissione del messaggio “che un figlio è sempre una cosa positiva”, “che un figlio può cambiare (in meglio) la vita” fino ad arrivare a condizionamenti addirittura patologici secondo i quali “la maternità è lo scopo della donna” e simili.
La nascita di un figlio ha sempre avuto una valenza positiva sia per motivi familiari (una volta un figlio significava un aiuto in più nella gestione della terra) sia per motivi sociali (i figli dovranno far funzionare la società del futuro).
Oggi che la società è cambiata e le persone hanno maggior spirito critico, incominciano a levarsi voci che sostengono che fare figli non è poi un così grande affare per la qualità della vita.
Ho usato proprio la parola “affare” perché se essa indigna (“non si possono trattare i figli come un affare, come merce ecc.”), allora probabilmente si è condizionati e vale l’invito a leggere testi come quello di Corinne Maier (No Kid. 40 ragioni per non avere figli) o a studiare le ricerche della sociologa americana Robin Simon. Quest’ultima ha analizzato le risposte date nell’indagine commissionata dall’Ufficio Nazionale Statistiche su un campione rappresentativo di 13.000 famiglie, arrivando alla conclusione che:
- le coppie senza figli sono più felici delle coppie con figli;
- ciò vale per tutte le fasce d’età;
- la situazione è andata progressivamente peggiorando negli ultimi 50 anni;
- la negatività esistenziale diminuisce quando i figli formano la propria famiglia.

Il concetto di istinto materno viene usato spesso in modo oppressivo nei confronti della figura della donna, attribuendole un ruolo che non tiene conto delle circostanze individuali
In molti Paesi (l’Italia è troppo “cattolica” per concetti moderni come questo…) già da diversi anni si ipotizzavano conclusioni come quelle di Simon. Per esempio, il francese Hefez aveva già sottolineato il fatto che il primo figlio peggiora la qualità di vita di molte coppie, ma che il secondogenito affossa ogni tentativo di vivere al massimo la propria libertà.
I condizionamenti ricevuti convincevano la coppia che i sacrifici erano necessari per una piena realizzazione di sé, almeno fino a che nella società le coppie senza figli sono state così numerose da smentire con la semplice evidenza dei fatti l’uguaglianza sacrifici=realizzazione.
Dovrebbe essere a tutti chiaro che i figli abbassano la qualità della vita. Questa è un’affermazione statistica, vera cioè in media. Molti sono d’accordo, salvo pensare che loro sono decisamente al di sopra della media! In realtà, l’esperienza mi porta a ritenere che l’affermazione sia vera nel 90% dei casi.
Da ultimo, è interessante sottolineare come sia grande la percentuale delle donne che hanno una lieve o grave depressione post partum, fatto taciuto o minimizzato (dando la colpa solo agli ormoni e non al contraccolpo psicologico di non sentire quella felicità che era stata promessa) da chi spinge l’istinto materno.
Per approfondire i casi in cui la nascita di un figlio è positiva o negativa si veda l’articolo I figli.