Il termine empatia è uno di quelli dove gli equivoci si sprecano, sia perché viene definito in diverse scienze sia perché il senso comune ne altera arbitrariamente il significato.
L’empatia è la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona comprendendone immediatamente i processi psichici, senza nessuna o scarsa partecipazione emotiva.
Empatia deriva dal greco (en-pathos, cioè sentire dentro); nell’antica Grecia era il rapporto che legava l’autore-cantautore (aedo) al suo pubblico.
Il termine fu ripreso solo a fine ‘800 dal R. Vischer che in ambito estetico usava il termine Einfühlung (poi tradotto in inglese con empathy) per indicare la capacità di cogliere il valore simbolico della natura, quindi una definizione molto più ristretta di quella attuale. Lo stesso Vischer ne ampliò la definizione comprendendo nella “natura” gli altri e le cose che ci circondano; in estetica poi divenne sinonimo di simpatia estetica, la capacità di sentire ciò che un’opera d’arte esprime.
In psicologia, già Freud (1921) sosteneva che senza empatia fosse impossibile conoscere l’altro; più tardi Kohut fece dell’empatia uno strumento terapeutico. Sostanzialmente, si oppongono due visioni:
- per alcuni psicoanalisti, empatizzare significa provare quello che prova l’altro, dando motivo al soggetto di capire ciò che prova egli stesso. Questo atteggiamento porta alla definizione scorretta in uso comunemente.
- Dagli anni 1960, per i cognitivisti, l’empatia è la capacità di comprendere pensieri, emozioni e intenzioni dell’altro senza partecipazione emotiva, quindi aderendo alla corretta definizione che il termine ha.
Vi sono poi studiosi (Mehrabian, Feshback) che tendono a unificare le due visioni, ma lo scopo appare tipicamente terapeutico e non è del tutto chiaro. Altri come Hoffman aggiungono anche altri fattori come la componente motivazionale, per esempio quando si cerca di aiutare una persona che sta soffrendo. Secondo Hoffman, essere empatici, aiutare l’altro permetterebbe di accrescere il proprio stato di benessere, viceversa il non aiutarlo porterebbe a sensi di colpa. Va da sé che questa visione per il Personalismo è una forma primordiale di patosensibilità. Per il Personalismo un coinvolgimento affettivo del terapeuta è il miglior modo per allungare i tempi di cambiamento della vita del soggetto perché di fatto si tende a dargli quello che lui chiede anziché quello di cui ha bisogno. Per il Personalismo vale quindi la definizione puramente cognitivista dell’empatia.
Per completezza si deve ricordare che nella pubblicità, l’empatia è la capacità di coinvolgere il fruitore con un messaggio in cui lo stesso è portato a immedesimarsi; tale stratagemma è utilizzato anche nella seminformazione.
Le definizioni “dubbie” di empatia
Dalla definizione corretta ne seguono altre non sempre particolarmente felici.
- L’empatia è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro” percependo, in questo modo, emozioni e pensieri. Fin qui tutto è corretto, ma non si deve dimenticare che non deve esserci nessun coinvolgimento emotivo, non deve esserci simpatia (l’etimologia del termine simpatia significa proprio soffrire con l’altro).
- L’empatia è comprensione degli altri. Corretto, ma su questa definizione ci può essere l’equivoco del termine “comprensione” come approvazione delle azioni e dei sentimenti altrui, cosa sicuramente non automaticamente vera. Inoltre, spesso a questa definizione si aggiunge il fatto che non deve esserci nessun giudizio. Ciò è particolarmente scorretto: di fronte a un soggetto che ha ucciso l’assassino del figlio, si può empatizzare (comprendendone il gesto), ma si deve giudicare, eventualmente usando il rapporto empatico per stabilire le attenuanti.
- Nell’uso comune, empatia è la scelta di ascoltare e di essere vicini a un’altra persona, accantonando temporaneamente il proprio stato emotivo. Questa definizione è scorretta perché il termine corretto da usare è simpatia: noi stiamo simpatizzando con l’altro.
Riassumendo, qualunque definizione che tenda a inserire una partecipazione affettiva al processo empatico risulta dubbia perché fra l’altro, non si comprende, né si può stabilire fino a dove questa partecipazione possa positivamente arrivare (al limite, essere empatici con un suicida porterebbe al suicidio!).

All’interno di una coppia l’empatia è positiva se serve per risolvere incomprensioni mentre è negativa se evidenzia incompatibilità che minacciano la continuità della relazione
Cosa dicono la genetica e la neurobiologia
L’empatia sarebbe parzialmente determinata geneticamente (per esempio, i portatori della variante doppia G del gene OXTR avrebbero migliori abilità sociali e una maggiore autostima, tipici di chi sa comprendere l’altro).
Anche le neuroscienze hanno dato un buon contributo alla conoscenza dei meccanismi empatici, legandoli all’attivazione dei neuroni specchio (rispecchiamo o imitiamo la risposta emotiva che ci aspetteremmo di provare in quella condizione o contesto), scoperti nei macachi dall’italiano G. Rizzolatti.
Nell’empatia, le persone sentono ciò che credono siano le emozioni di un altro, il che le rende sia affettive che cognitive. Ma cosa distingue l’empatia affettiva (più propriamente simpatia) da quella cognitiva?
Una metanalisi di recenti studi fMRI sull’empatia ha confermato che diverse aree cerebrali si attivano: durante l’empatia affettivo-percettiva si attiva il giro frontale inferiore (un giro, detto anche circonvoluzione cerebrale, è un rilievo tortuoso e di forma allungata della superficie esterna degli emisferi cerebrali) mentre durante l’empatia cognitiva si attiva il giro prefrontale ventromediale.
Per il Personalismo è fondamentale che l’eliminazione dei condizionamenti che portano alla patosensibilità sviluppi l’atteggiamento a usare maggiormente l’area dell’empatia cognitiva.
Empatia: due casi pratici
Ovvio che se non siamo empatici, non riusciamo a metterci nei panni dell’altro, difficilmente sappiamo capire gli altri e (probabilmente noi stessi).
Diventare buoni commerciali – Un buon commerciale è empatico perché solo così riesce a capire i reali desideri, le reali aspettative del cliente. Non serve a nulla cercare di vendere qualcosa spiegando perché “a noi servirebbe” (un errore gravissimo: si deve “capire” l’altro e spiegare perché a lui servirebbe!); analogamente, non serve a nulla insistere per “sfinire l’altro” se non è in grado di trovare motivazioni che, se fossimo al suo posto, porterebbero all’acquisto.
Trovare amici e relazionarsi con gli altri – Molte persone non sanno offrire all’altro ciò che questi desidera, ma cercano di vendergli cose in cui loro sono bravi. Se invito a cena degli amici e propongo il “mio” genere di cucina, la cena probabilmente sarà un flop. Per esempio, tutti capiscono, che, se parlo di argomenti che all’altro non interessano, non otterrò un grande coinvolgimento; ma molti non comprendono che dare di un certo argomento una propria “visione” può essere disastroso: se parlo di calcio con un potenziale amico che si interessa di questo campionato e io invece gli parlo della storia dei mondiali, sono spacciato. Ecco perché, per esempio, gli anziani hanno molta difficoltà a relazionarsi: rimanendo fissi “ai loro tempi”, anche quando l’argomento è comune, non riescono a interessare l’interlocutore.