Come può la dignità aiutarci a vivere meglio? Capendo che cos’è e come può interagire con la nostra autostima, dandoci una forza incredibile.
Molte idee del Personalismo sono istintivamente rigettate anche da chi lo apprezza. Una di queste è sicuramente il concetto che la vecchiaia è una colpa. In realtà questa posizione non è che un corollario di una visione più ampia che vuole promuovere la dignità umana.
Probabilmente a sei anni un bambino prodigio suona i notturni di Chopin, studia le equazioni differenziali e traduce Omero dal greco. Io leggevo Tex Willer.
Negli oratori, al catechismo i bambini imparavano le basi della cultura cattolica, ad amare il loro prossimo come loro stessi, io conoscevo la cultura indiana. A dieci anni un mio compagno di scuola si nascose nel bagno; quando lo trovarono non spiegò mai perché era “fuggito”. Solo a me, sapendo che ero il primo della classe e forse potevo dargli una risposta, rivelò che era terrorizzato perché aveva realizzato che tutti dobbiamo morire (il catechismo non gli era servito granché…); non sapendo cosa rispondergli, mi venne spontaneo vendergli una massima navajo: “oggi è un buon giorno per morire”. In effetti, sin da piccolo, un forte antidoto contro l’idea della morte è sempre stata la sfida a vivere al meglio, perché muore veramente solo chi spreca la vita.
Dietro a quella massima e a tante altre c’è il concetto di dignità, la forza interiore che ci consente di opporsi alle avversità del mondo. Una visione più moderna è la vocina che serve per farti fare la cosa giusta. La dignità è quella forza che svogliati, deboli o insufficienti non hanno, spesso perché hanno deciso di non avere, sperando che non serva perché allenarla quotidianamente costa comunque fatica.
La dignità è quella forza su cui si basa un’autostima stabile, indistruttibile.
Nella società moderna, dominata dall’ansia e dalla paura, la dignità è stata invece sostituita dalla ricerca del successo, creando una massa di perdenti e un nugolo di vincenti (che potrebbero essere i perdenti di domani); coloro che il successo non possono più averlo (deboli, vecchi, emarginati) sono spesso sostenuti con un pietismo che di fatto, umiliandoli, toglie loro anche l’ultimo granello di dignità, li rende dei “morti viventi“.
Scena cult – Una donna minuta trascina nel corridoio del treno una valigia pesantissima; arrivata nello scompartimento, chiede con gentilezza a un signore se può mettergliela sulla rete sopra i sedili. Nel 95% dei casi la risposta è “Ma certo!”, nel 5% è una banale giustificazione del tipo “mi spiace, non posso ho l’ernia del disco”. Chi risponderebbe: “No, non voglio toglierle la dignità di essere autosufficiente!”?
La donna dava per scontato che qualcuno l’avrebbe aiutata, quasi una pretesa sociale (da notare che avrebbe potuto chiedere al personale del treno – l’attore sociale della scena – non a un passeggero). Infatti spesso, dietro a una richiesta gentile, c’è una forma di violenza non criminale nella pretesa che l’altro non dica di no. La gentilezza è solo un modulo, una formalità per ottenere un assenso.
NOTA – Questo articolo non vuole condannare l’aiuto dato agli altri quanto l’insufficienza delle persone. Di fronte a una persona in difficoltà, se questa è degna d’aiuto (cioè in primis non chiede), se si può, si aiuta sempre. Ricordo l’esempio della mia vicina quasi novantenne che si era messa a spalare la neve dal vialetto di casa sua (mitica!). Dopo aver finito il mio, lei era a un terzo circa e le ho finito anche il suo. Supponiamo ora che avessi una vicina sui sessant’anni che, magari dopo aver vissuto male (ma questa è un’aggravante, è ininfluente nella decisione), suonasse al mio campanello e mi chiedesse gentilmente “mi scusi, non è che può ripulirmi il vialetto dalla neve?”. “No, grazie!”.

La dignità è quella forza su cui si basa un’autostima stabile, indistruttibile
Il pietismo
Alla base del nostro pietismo ci sono sempre personalità critiche. Il patosensibile ipocrita o il debole aiutano perché un giorno potrebbero trovarsi nella stessa situazione (quel giorno, quando sa che la fine è vicina, il capo indiano, non più utile a sé e alla sua tribù, prende la coperta e se ne va sulla montagna a terminare la sua esistenza).
L’insufficiente adotta la strategia della cooperativa: aiutiamoci tutti così si vive meglio; peccato che se i problemi di un gruppo sono i problemi di tutti, ogni giorno io avrò un problema. Non è meglio che tutti imparino a gestirsi i propri problemi, soprattutto quando questi sono banali?
Il patosensibile idealista scambia il mondo neutro per il mondo dell’amore e non ha compreso la coerenza della soluzione sociale dei problemi.