La depressione è considerata uno dei mali più subdoli che affliggono la nostra società. Difficile da diagnosticare con esattezza, difficile da curare. In questo articolo esporremo sia una visione tradizionale sia una visione più moderna che rielabora i concetti tradizionali, superandoli in una visione sicuramente più concreta, soprattutto per quanto riguarda le depressioni lievi.
La visione tradizionale
La depressione è uno dei più importanti disturbi dell’umore. Sulla definizione di depressione e sulle modalità di classificazione della stessa non c’è stata (e non c’è) sempre uniformità di vedute; questo spiega le molteplici tipologie di classificazione proposte da vari autori.
Se facciamo riferimento ai disturbi dell’umore, diversi autori ne considerano due come più importanti: il disturbo depressivo maggiore (noto anche come depressione grave) e il disturbo bipolare I. Il disturbo bipolare è un quadro clinico caratterizzato dall’alternanza fra episodi di tipo depressivo ed episodi di tipo maniacale (nel caso in cui le fasi depressive si alternino alla mania si parla di disturbo bipolare I, se invece le fasi depressive si alternano all’ipomania si parla di disturbo bipolare II).
Da un punto di vista clinico, le alterazioni del tono dell’umore possono essere studiate basandosi su due prospettive di tipo temporale:
- prospettiva trasversale (si considera lo stato patologico del soggetto nell’esatto momento in cui questi viene osservato dal medico);
- prospettiva longitudinale (si prende in considerazione la patologia nella sua interezza e nel suo percorso patologico (episodio unico, episodi recidivanti con intervalli di normalità, cronicizzazione continua).
In base alla prospettiva trasversale si distinguono: episodio depressivo maggiore (anche depressione maggiore), episodio depressivo minore, episodio ipomaniacale, episodio maniacale ed episodio misto.
In base alla prospettiva longitudinale si distinguono: disturbo bipolare I, disturbo bipolare II, disturbo ciclotimico, disturbo depressivo maggiore, disturbo distimico. I primi tre sono episodi di tipo bipolare (ovvero depressivi e maniacali), mentre gli ultimi due sono episodi esclusivamente depressivi.
Per approfondire: Episodio depressivo, Disturbo bipolare.
Depressione: i sintomi
Secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, si è depressi se il soggetto da almeno due settimane ha almeno cinque di questi sintomi:
- Tristezza e variabilità nell’umore tutto il giorno, specialmente al mattino
- Estremo affaticamento
- Sensazione di inutilità o sensi di colpa costanti
- Scarsa concentrazione e/o problemi di memoria
- Scarse o eccessive ore di sonno
- Scarso interesse alla vita
- Pensieri suicidi
- Disturbi alimentari che portano al netto sovrappeso o al sottopeso (mentalità anoressica).
Le cure
In linea generale la depressione viene trattata attraverso la combinazione di psicoterapia e terapia farmacologica (farmaci antidepressivi).
Psicoterapia – La psicoterapia può essere di tipo cognitivo (per correggere gli errori nello schema di pensiero del paziente), a orientamento interpersonale (per migliorare la socialità del soggetto) o a orientamento psicodinamico (per ricostruire eventi o conflitti passati alla base della patologia).
Gli antidepressivi – Milioni di persone vi ricorrono, ma sono pochissimi quelli che sono guariti da depressioni severe. Basterebbe questa constatazione per far dubitare. Purtroppo la ricerca ha continuato a sfornare negli anni dati che sembravano attestare la validità di farmaci antidepressivi, convenzionali e no (come l’iperico). In realtà in tutte le ricerche la percentuale di successo del farmaco era superiore a quella del placebo, ma inspiegabilmente l’efficacia di quest’ultimo non era nulla! Come dire il 30% guarisce col placebo (cioè con nulla!) e il 60% con l’antidepressivo, quindi il 30% delle guarigioni è merito del farmaco. In realtà è un modo di ragionare decisamente scorretto. Una ricerca in cui il placebo abbia una qualche efficacia è una ricerca sbagliata (nel campione, nelle metodiche, nell’analisi dei risultati o altro, vedasi Il trucco del placebo). In effetti la tesi di J. Frank (Persuasion and Healing), secondo la quale suscitare speranza aiuta a guarire, spiega non solo l’effetto del placebo in queste ricerche, ma anche il risultato dell’antidepressivo, somministrato a un paziente ignaro, ma da un medico che con le sue attenzioni può “aiutare a guarire”, temporaneamente s’intende, ai soli fini della statistica della ricerca. Nel 2002 Irving Kirsch ha pubblicato un lavoro (su Prevention & Treatment, rivista on line della American Psychological Association) in cui esamina gli studi che le case produttrici inviano alla FDA (Food and Drug Administration). Kirsch ha scoperto che:
- la differenza fra farmaco e placebo è minima;
- non esiste una relazione fra la quantità di farmaco assunto e il suo effetto prodotto nell’organismo.
Quest’ultimo punto è importantissimo: se non c’è relazione con la dose come si può pensare che il farmaco sia efficace?
Una visione moderna
La complessità del problema “depressione” dipende dal fatto che non si tratta solo di una patologia (il cui campo sarebbe di totale competenza della medicina), ma di una situazione esistenziale in cui s’intrecciano:
- uno stato fisico patologico (componente biologica)
- uno stato psichico patologico (componente psichica)
- assenza di energia vitale (componente esistenziale)
- vissuto critico di situazioni negative (componente reattiva).
Stato fisico patologico – Attorno al 1950 diversi studi mostrarono che la diminuzione di serotonina e noradrenalina (indotta per la prima volta casualmente dalla somministrazione di reserpina, un ipotensivo) induceva depressione in una percentuale di circa il 20% dei soggetti. Altri farmaci (come la isoniazide usata per la cura della tubercolosi) miglioravano il tono dell’umore. L’iniziale esultanza fu mitigata da studi successivi che mostrarono come il quadro ormonale legato alla depressione fosse talmente complicato che non era affatto semplice controllarlo positivamente.
Nonostante molti psichiatri continuino a usare pesantemente cure farmacologiche, oggi è però abbastanza chiaro che, tranne nel caso di patologie psicotiche (particolarmente gravi) o di malattie (depressione secondaria), la depressione su base biologica è percentualmente poco comune.
Stato psichico patologico – Si tratta di depressioni legate a una psiche patologica e rientrano nel campo della psichiatria; in genere il comportamento del soggetto appare, anche a un osservatore non medico, decisamente turbato e fuori dal comune. Occorre rilevare che in questi casi il fattore genetico-familiare è molto importante perché il tasso di ereditabilità si attesta attorno al 75%. Non sempre la distinzione fra componente biologica e psichica è chiara; per semplicità di classificazione si può parlare di componente biologica solo quando la causa è sicuramente ormonale o iatrogena (dovuta cioè a farmaci o sostanze assunte dal soggetto).
Le prime due cause riguardano i casi più gravi, dove in genere la vita sociale è fortemente penalizzata, quasi impossibile senza cure.
Assenza di energia vitale – Il soggetto non ha saputo costruirsi una buona capacità d’amare, la sua energia vitale è molto bassa. Può sembrare un cane che si morde la coda perché un depresso appare una persona poco vitale, ma, come abbiamo visto, l’energia vitale si costruisce con scelte di vita opportune. Si pensi che la probabilità di avere un episodio depressivo prima dei 70 anni è del 27% negli uomini e del 45% fra le donne. Anche se questo dato è globale (cioè è la somma delle quattro cause), esso indica semplicemente che spesso, durante la sua vita, il soggetto è incapace di costruirsi un livello adeguato di energia vitale tale da metterlo al riparo dalla depressione.
Vissuto critico di situazioni negative – Le reazioni alle avversità della vita sono soggettive e hanno un ampio spettro di risposte. Perché c’è chi perde il lavoro e cade in una profonda depressione e chi invece si rimbocca le maniche e cerca di trovarne un altro? Perché alcuni che vengono lasciati dal partner si suicidano e altri invece se ne fanno una ragione? La risposta può essere sintetizzata, a prescindere dalla situazione negativa:
chi ha una depressione reattiva non ha una personalità equilibrata.
È in queste depressioni che la psicoterapia ottiene i risultati migliori, anche se con tempi spesso non brevi.
A seconda della miscela delle quattro componenti si genera una forma depressiva. Si può dire che
per ogni paziente esiste una forma di depressione.
In altri termini:
la depressione è una malattia personalizzata.
Questo semplice concetto non è spesso compreso né dal terapeuta né dal paziente; se entrambi tentano di ricondurre a una sola componente una forma depressiva complessa, difficilmente si potrà uscire dalla situazione. È sorprendente come anche agli addetti ai lavori sfugga sovente il vettore depressione, cioè la presenza (o l’assenza) di una o più componenti nel soggetto depresso. È pertanto fondamentale comprendere come dalla descrizione medica si riesca a formulare una nuova classificazione, moderna e soprattutto concreta.
Il vettore depressione
La descrizione che la medicina dà attualmente delle forme depressive è facilmente inquadrabile nel modello del vettore depressione e ciò consente di avere le idee molto più chiare. Le corrispondenze sono facili per le depressioni pure:
- depressione reattiva <-> componente reattiva massima
- depressioni su base organica o iatrogena <-> componente fisica massima
- depressione bipolare, depressione maggiore malinconica <-> componente psichica massima.
Ma per le altre? Troppe volte una tristezza occasionale, sbalzi d’umore, una facile affaticabilità vengono scambiati per depressione. Da qui si entra in un labirinto da cui non si riesce più a uscire; gli psicofarmaci diventano le mura di questa prigione e il soggetto si convince della loro necessità, tralasciando ogni analisi della componente esistenziale dei suoi problemi.
La depressione esistenziale
Questo paragrafo è dedicato alla depressione in cui la componente esistenziale è piuttosto alta. Le sue conclusioni non si possono applicare cioè a quelle depressioni in cui questa componente è piccola.
Come riconoscere una depressione esistenziale? Molti soggetti riferiscono di aver perso interesse per le cose quotidiane della giornata e, se il loro stato è penoso, è difficile concludere che si tratti di una depressione esistenziale. In realtà, ciò che è fondamentale è scoprire se fra gli interessi persi esistevano oggetti d’amore e se questi erano amati correttamente. Se la perdita di interessi riguarda solo la quotidianità, come il semplice lavoro, lo studiare, il guardare la televisione ecc. e si scopre che il soggetto non aveva veri oggetti d’amore (o che li amava male, in maniera nevrotica), allora è molto probabile che la componente esistenziale della sua depressione sia massima. La domanda fondamentale è dunque la seguente:
prima della depressione c’era qualcosa che amava veramente investendo entusiasmo in questo oggetto d’amore?
Se la risposta è no, la depressione non è che la “presa di coscienza inconscia” (notate l’apparente contraddizione da cui nasce il dramma della depressione) dell’assenza nella vita di vero amore. Potremmo dire che è il manifestarsi clamoroso di una bassa energia vitale.
Purtroppo chi è portato a vivere periodi di depressione esistenziale non sa amare (o lo fa in modo sbagliato) sin da piccolo; anche se si è interessato a molte cose, mai in genere lo ha fatto per amore: lo ha fatto perché spinto dalla famiglia, lo ha fatto per ottenere l’ammirazione degli altri, lo ha fatto per un’infatuazione passeggera, lo ha fatto per nascondere o risolvere i propri problemi. Chi ama veramente non ha tempo per essere depresso e amare dipende solo da noi, non da ciò che ci viene offerto dal mondo.
Il dolore non è necessario – Secondo la religione buddhista la vita è dolore; questo è un concetto che non è noto a molti buddhisti occidentali che hanno frainteso la loro religione e hanno aderito a essa solo in un impeto di misticismo o per liberarsi dai vincoli di religioni come il cristianesimo e l’islamismo che intervengono pesantemente nella vita quotidiana, condizionando le scelte dei loro fedeli. Non è però solo il buddhismo che ritiene che la vita sia dolore; molte altre religioni attribuiscono al dolore e alla sofferenza un valore particolare e fanno di chi soffre una specie di eletto. La cosa non è chiara nemmeno ai sacerdoti; per limitarsi al cattolicesimo, è indubbio che esistano uomini di Chiesa che sono inclini al sorriso e alla gioia e altri che invece fanno dell’ascetismo, della sofferenza e del dolore il filo conduttore della loro vita.
Tralasciando i casi clinici, molte forme depressive (soprattutto se lievi) sono perfettamente spiegabili con l’organizzazione della vita del soggetto. Purtroppo per molti individui il dolore, la sofferenza, i problemi sono proprio ciò che aiuta a vivere, riempiendo una vita incolore. L’assenza di amore (per la loro incapacità di amare) li porta a trovare nella sofferenza l’unica cosa che giustifichi la vita; il loro atteggiamento sembra masochistico, ma in realtà è un mezzo di difesa. Se prendessero coscienza della loro incapacità di amare (e purtroppo molti arrivano a questo stadio), capirebbero che la loro vita è vuota e inutile per colpa loro, non per i problemi che li affliggono, per le preoccupazioni che li schiacciano, per la malattia che li uccide.
La predisposizione – Il profilo tipico di un depresso esistenziale è:
- assenza di veri interessi (bassa energia vitale)
- assenza di autosufficienza
- forza di volontà anevrotica assente o limitata.
I tre punti sono in genere presenti anche prima che scoppi la depressione. Si deve anche notare che depressi che hanno periodi di remissione (e nei quali stanno relativamente bene) continuano a mantenere una visione della vita che li predispone alla depressione: il successivo periodo depressivo non è altro che la nuova attuazione della loro personalità depressa in un contesto ritornato a essere più difficile (per esempio cessa un interesse che occasionalmente aveva spinto la bilancia esistenziale verso il positivo).
L’amore per qualcosa o per qualcuno non proviene dalla capacità di amare, ma è subordinato ad altre cause come il successo, la necessità di appoggiarsi alla persona amata ecc. Non si tratta di interessi veri, ma effimeri, che stanno in piedi finché danno al soggetto quello di cui ha bisogno: ci si butta nel lavoro per la carriera o per i soldi non perché si ama ciò che si fa, si pratica sport perché si vince e non per il piacere di farlo, si coltiva un hobby perché ci permette di avere relazioni sociali e non perché lo si ama ecc.
L’individuo spesso non è autosufficiente: ha bisogno della famiglia, dei genitori; spesso soffre la solitudine in assenza di un partner con cui vivere la vita; se lo trova, diventa dipendente sia economicamente sia esistenzialmente da lui ecc.
Per approfondire il concetto di forza di volontà anevrotica si segua il link sopraindicato.
Dal punto di vista del Personalismo sono personalità critiche per la depressione esistenziale quella svogliata, quella sopravvivente e quella insufficiente.
Come uscirne – In poche righe non si può certo avere la pretesa di insegnare come riorganizzare la propria vita. Si può però dire cosa non si deve fare. Il depresso esistenziale spesso fa di tutto per non modificare una virgola della sua vita: si affida ai farmaci, convinto che la sua sia una malattia solo chimica, oppure si affida al terapeuta perché vuole sentire parlare della sua condizione, dei suoi sintomi, di come curarsi: ci vogliono spesso mesi o anni per arrivare alle cause. Deve invece fare tabula rasa del suo precedente modo di vivere, nascere ancora, imparare (o reimparare) ad amare il mondo, sviluppando la sua capacità d’amare, cioè aumentando la sua energia vitale: non può pretendere che la sua anima ritorni a volare se non cambia nulla, se non si costruisce un nuovo paio di ali.
La depressione reattiva
Nella depressione reattiva è molto facile trovare una causa scatenante. Di solito si tratta di un vissuto in quegli ambienti che sono più facili ai condizionamenti: famiglia, lavoro, relazioni sociali ecc. Il fattore scatenante fa esplodere la depressione, come un fiammifero in una stanza piena di esplosivi. Ancora una volta si deve ricordare che la depressione reattiva è una reazione soggettiva al vissuto, nel senso che altre persone, nella stessa situazione, non innescherebbero la depressione, ma reagirebbero in altri modi, per esempio con un’ottima gestione di concetti come dolore, delusione, frustrazione ecc. Ottima gestione non vuol dire insensibilità, ma semplicemente vivere il momento anche con profonda tristezza senza però perdere la voglia di andare avanti (ovviamente deve essere ben chiaro che profonda tristezza non vuol dire depressione).
Per il Personalismo è abbastanza semplice concludere che
la depressione reattiva non è che il manifestarsi patologico dei problemi legati a una o più personalità critiche del soggetto.
Rovesciando la frase, si può dire che in un depresso reattivo si può sempre trovare una personalità critica, correlabile al suo stato.
Non a caso, le terapie psicologiche che meglio funzionano sono quelle che non si limitano soltanto a far prendere coscienza dei comportamenti critici del soggetto, suggerendogli correzioni, ma quelle che giungono a una modifica della personalità. Infatti, superare il vissuto critico senza cambiare la propria personalità lascia il soggetto indifeso di fronte a un nuovo vissuto negativo.
Per il Personalismo una personalità equilibrata è immune dalla depressione reattiva; l’equilibrio è il vaccino contro questa terribile patologia.
Scorrendo le varie personalità, è abbastanza facile trovarne alcune che possono innescare più facilmente di altre una forte depressione, anche se per ogni personalità critica si può comunque trovare una situazione particolare che funzioni da condizione facilitante la depressione. Vediamo alcuni esempi.
L’inibito potrà innescare una depressione nel momento in cui degenera il suo rapporto con la causa dell’inibizione: classico il caso del figlio succube dei genitori che cade in depressione perché “non si ritiene all’altezza delle aspettative”; o quello della persona ormai matura che cade in depressione per la perdita della madre.
Il sopravvivente può cadere in depressione quando non riesce a soddisfare i condizionamenti subiti: il matrimonio che si sfascia, il lavoro perso, le dicerie della gente ecc.
Il romantico crolla quando perde l’idea dominante: il tradimento del partner (idea dominante: amore) o il crollo dell’azienda (idea dominante: lavoro) sono casi classici.
L’insoddisfatto si potrebbe definire un lieve depresso cronico!
Nell’apparente la depressione è innescata da un crollo della sua immagine presso gli altri.