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Il venerdì del sopravvivente

Questa storiella si rifà ai tempi in cui lavoravo nella grande metropoli. Mi viene in mente ogni volta che la gente brinda al nuovo anno e al proprio futuro, ignara che, gettando via un anno del proprio passato, festeggia un po’ della propria morte, illusa di trovare domani ciò che non ha saputo avere oggi o ieri.

Quel giorno una nebbia non fitta, ma fastidiosa, intristiva i già lugubri contorni del quartiere industriale della metropoli.

Come ogni mattina, da dodici anni, il buon Sigfrido Vercesi (nome di fantasia) scese dall’autobus insieme a un suo collega e imboccò il lungo vialone che portava alla ditta; come ogni venerdì si accese la sigaretta con una gioia quasi fanciullesca, conscio che stava per dimenticare per un intero fine settimana la sua pesante condizione di pendolare.Forse perché più contento del solito, quel giorno volle esplicitare la sua allegria al collega: gli raccontò di una battuta di pesca, di qualche ora di ozio, di una vita più umana e terminò soddisfatto: “Per fortuna che alla fine di ogni settimana arriva il venerdì”. Fecero ancora qualche decina di metri in silenzio, poi, proprio quando l’enorme sagoma dell’azienda comparve minacciosa nella nebbia, il collega gli disse: “Sì, ma di venerdì in venerdì arriverà anche l’ultimo venerdì”.

Quando Vercesi comprese fino in fondo il significato di quelle parole, tutta la sua filosofia di vita si frantumò come un vaso di porcellana schiacciato da un elefante; improvvisamente si sentì vecchio, inutile: nemmeno la rabbia per aver capito lo spreco della sua esistenza riusciva a uscire dal suo cuore per trasformarsi in un qualunque moto di ribellione.

Entrò in silenzio in ditta e timbrò il suo cartellino.

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