Il cacciatore vide la tortora avvicinarsi, probabilmente con l’intenzione di sostare un poco sull’albero sotto al quale era appostato; quando l’uccello fu a tiro, l’uomo sparò. La tortora cadde come un sasso, a una quindicina di metri dal cacciatore che subito corse a raccogliere la preda. Quando arrivò sull’uccello si accorse con delusione che il suo tiro non era stato preciso e che l’animale aveva solo un’ala spezzata. Decise di non farlo soffrire inutilmente; lo prese in mano e spense quegli occhi pieni di paura sbattendogli la testa violentemente contro il calcio del fucile un paio di volte. Poi ripose l’uccello nel carniere e si pulì la mano sporca di sangue in un ciuffo d’erba.
Il pescatore vide il galleggiante muoversi e sparire sotto il pelo dell’acqua. Con la consueta abilità portò l’ultimo pesce della giornata a riva, staccò l’amo e buttò la preda nel retino. Dopo una decina di minuti, quando il sole cominciava a essere troppo basso, decise di tornare, svuotò il secchio e mise i pesci in una busta di plastica. Mentre tornava a casa in quel sacchetto i pesci asfissiavano alla ricerca di un po’ d’acqua, morendo terribilmente in silenzio.
Nonna Anna decise che quella sera avrebbe fatto un buon minestrone; andò nell’orto, raccolse le verdure che servivano, da ultimo due bellissime carote che aveva strappato dal terreno, scegliendole fra quelle che sembravano più grandi. Pulì tutto attentamente, in particolare le carote, che raschiò per bene con un coltello e lavò più volte, poi cucinò il minestrone con la solita cura.

Molte persone si dispiacciono per la morte di una tortora, ma non per quelle di un topo o di un serprente, esteticamente molto meno piacevoli
Queste tre storielle in realtà sono un test contro una malattia molto diffusa: la patosensibilità. Molti lettori (che chiameremo patosensibili) avranno letto ognuno di questi tre piccoli quadretti con un atteggiamento spirituale completamente diverso: ribrezzo per la crudeltà del cacciatore, pietà per la sorte del povero pesce e affetto per nonna Anna. Chi si è così comportato ha sicuramente un cattivo rapporto con la morte e con il dolore in generale, un rapporto che porta l’individuo a commettere il grossolano errore di dare alla vita un valore emotivo legato alla paura della morte.
Infatti il cacciatore, il pescatore e nonna Anna si sono comportati esattamente nello stesso modo: ognuno ha troncato in maniera brutale una vita non umana, ma il patosensibile ha avvertito in maniera diversa le loro azioni. Gli occhi del pesce non sono espressivi come quelli della tortora, non grida, non perde sangue, muore orribilmente per asfissia, con una lenta agonia, ma in silenzio. Le carote colte da nonna Anna non gridano, non sanguinano e forse non si capisce nemmeno bene il momento in cui muoiono, vista la loro staticità anche da vive; ma si cerchi di immaginare la loro agonia, strappate dalla terra con mille ferite e poi tagliuzzate: eppure il patosensibile dice che nonna Anna ha colto le carote, non che le ha uccise.
Le conclusioni – Il cacciatore o il pescatore sono logicamente coerenti perché per loro la vita di una tortora o di un pesce non è paragonabile a quella di un uomo; nonna Anna è coerente perché la vita di una carota non è paragonabile a quella di forme superiori. Partendo da queste ipotesi, le loro azioni sono giustificate.
Il patosensibile invece non accetta tali ipotesi e sostiene che ogni vita ha pari dignità. Ma le proprie azioni possono essere coerenti (e quindi giustificate) con questa nuova ipotesi?
- Solo pochissimi patosensibili rispettano ogni forma di vita (e quindi sono coerenti).
- Alcuni patosensibili per rispetto alla vita animale diventano vegetariani e spesso si comportano come nonna Anna uccidendo solo i vegetali. Per essere coerenti obiettano che la vita di una pianta non è paragonabile a quella di un animale (e in effetti non lo è!), ma questo discorso è molto pericoloso per la coerenza del vegetariano, poiché rende tutto relativo: la vita di un uomo vale più di quella di una tortora (e quindi il cacciatore è eticamente accettabile), che vale di più di quella di un pesce che vale di più di quella di una quercia che vale di più di quella di una carota.
- Per salvare la coerenza ho sentito anche questa giustificazione da parte di zoofili incalliti: i vegetali non soffrono. E allora sarebbe giusto uccidere un uomo o un animale, basterebbe non farlo soffrire…
La storiella dimostra quindi chiaramente che una posizione vegetariana non riesce a salvare la coerenza.
In una società dove ormai, soprattutto per un individuo giovane, sembra che il dolore fisico, la malattia e la morte siano eventi eccezionali, non si è più preparati ad affrontarli e si cerca di rimuoverli in ogni modo, si diventa cioè patosensibili. Chi sviene o si sente male per un prelievo di sangue, chi prova sensazioni spiacevoli alla vista di un morto, chi non vuol sentire parlare di malattie, sono tutte persone che non hanno un buon rapporto con la morte. Se la vostra zoofilia è causata dalla vostra patosensibilità, dovete correre ai ripari e analizzare il vostro rapporto con il dolore e con la morte.