Risalire la china: impresa ardua per gli ultimi. Già, gli ultimi. A molti posso sembrare una persona di successo, un numero uno in parecchi campi, ma non vorrei che fosse questo il motivo principale per cui sono ammirato (invidiato, denigrato, insultato a seconda dei casi). Vorrei spiegarvi perché cercare a tutti i costi di essere i numeri uno nulla c’entra con la felicità.
Si può dire che io sia stato praticamente ultimo in tutto ciò che ho fatto, ma per questo non mi sono mai disprezzato, né depresso, né arrabbiato, né stressato. Ho cercato di risalire la china, senza mai dimenticare di essere stato a fondo valle.
Per esempio da piccolo vivevo in una casa senza riscaldamento mentre oggi potrei alzarlo oltre ogni temperatura confortevole, ma non dimentico e non apprezzo particolarmente la compagnia dei ricchi che hanno dimenticato di essere stati poveri.
Da ragazzo avevo paura un po’ di tutto, ero insicuro, poi ho capito tante cose e da “bravo ragazzo” mi sono trasformato in un leader nei vari campi dove mi muovevo, ma non dimentico e ritengo ogni episodio di bullismo un crimine equiparabile a uno stupro e vorrei che ogni padre (madre) insegnasse ai propri figli a difendere chi non è ancora cresciuto abbastanza prima ancora di essere l’orgoglio dei genitori in questo o in quello.
Risalire la china: il calcio
Mi piaceva il calcio, ma rischiavo il linciaggio tante occasioni sprecavo, tanti passaggi sbagliavo, praticamente l’altra squadra giocava in dodici. In qualche anno ho capito “come si faceva” e negli anni dell’università ero gettonatissimo, ma non avevo dimenticato cosa significa esser scelto per ultimo nei campetti di periferia. Così, visto che quel mondo non cambiava le regole, lo abbandonai e passai al basket.
Risalire la china: il basket
La musica non cambiò molto, mi palleggiavo sui piedi, non facevo canestro nemmeno da sotto e su passaggi normali la palla diventava improvvisamente una saponetta. Ma almeno l’ambiente era migliore, capivo solo quanto fossi scarso perché se, per caso, ma proprio per caso, segnavo un canestro, venivano giù gli spalti dagli applausi dei miei compagni. Misi un canestro in cortile e incominciai a tirare, tirare, tirare. Era rilassante tirare da tre, mentre le immagini della giornata ti scorrevano davanti e i pensieri erano in libertà. Arrivai a giocare persino in un campionato minore e, fra amici, quando segnavo un canestro impossibile, al massimo un cenno di approvazione, ormai era “normale”. Ma non avevo dimenticato e se un mio passaggio metteva in difficoltà un nuovo arrivato, mi scusavo sempre, perché come diceva Mike D’Antoni “se un giovane della panchina non prende un passaggio la colpa è mia che non gli ho dato la palla in modo che riuscisse a prenderla!”. I miei compagni del lunedì divennero troppo “vecchi” e non era più motivante segnare tanti punti in contropiede, così lasciai il basket.
Risalire la china: la caccia
Ero ultimo anche nella caccia. Da ragazzo, un giorno d’ottobre la vecchia segugia se ne tornò alla macchina (è tutto rigorosamente vero…) perché avevo vuotato la cartucciera cercando di abbattere per sbaglio uno dei tanti fagiani che lei aveva levato. Allora comprai un libro di un certo Churchill, uno strano vecchio signore inglese che non ti insegnava a tirare, ma ti insegnava ad amare il tiro. Se prima con una mano contavo i fagiani che avevo preso in una stagione, ora posso contare quelli che manco, ma ancora oggi, dopo tanti anni, non dimentico e quando un tiro va a prendere un fagiano che sembrava irraggiungibile, sono sempre immensamente e fanciullescamente felice come se avessi ricevuto dalla Terra un dono inaspettato.
Risalire la china: la corsa
Nella corsa poi le cose non erano migliori. Prima della “svolta” lottavo nel gruppo degli ultimi delle gare competitive amatoriali; ricordo che in questo gruppo nella categoria degli under 40 eravamo in sei e che il massimo era arrivare primo degli ultimi; figuratevi quando arrivavo ultimo degli ultimi. Poi io e Massimo, un grande, decidemmo di fare sul serio; per lui, naturalmente dotato, fu facile, per me un po’ meno, ma, complice anche il cattivo invecchiamento di molti runner, arrivarono gli anni in cui piazzarsi fra i premiati delle varie garette locali era veramente facile. Ma non avevo dimenticato e un sacchetto di premi, a volte scaduti, non mi diceva veramente nulla, tanto che io e Massimo spesso ce ne andavamo prima della premiazione, per molti sacchettari una grande paesana fiera delle vanità.
Risalire la china: gli scacchi
Negli scacchi i primi tornei furono disastrosi, vincevo una partita solo se il mio avversario aveva un malore o era talmente depresso dalla classifica che dava forfait; poi a poco a poco progredii fino a diventare maestro; ma anche oggi degli scacchi non capisco ancora granché e, se vinco una partita, non penso di essere il campione del mondo, ma ringrazio l’avversario di avere fatto durante la partita sbagli più grandi dei miei.
In fondo la cosa bella è che ho sempre risalito la china senza il bisogno di farlo, senza nessuna voglia di rivincita, senza nessun intento di far pesare il mio futuro successo, ma per il gusto di scoprire e amare nuovi mondi. Anche perché, se uno la butta sul competitivo, anche quando per molti sembra essere in alto, resta sempre e comunque un mediocre, trova sempre un ambiente dove da vincitore diventa vinto. A volte è la vita stessa che ti ricorda questa realtà:
puoi anche aver preso 22 fagiani di fila, ma se un giorno sei stanco e pensi che su quella riva non ci possa essere nulla, il fagiano ti si leverà sotto i piedi e tu lo mancherai come quando avevi sedici anni; allora, invece di arrabbiarti o di essere deluso, sii felice perché hai imparato che su quella riva un fagiano ci può sempre essere.
Qual è l’insegnamento generale che si può trarre da queste considerazioni?
Prima di ambire a essere primi, occorre aver imparato ad accettare di essere ultimi.