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Lacrime e sacrifici olimpici

Alla vigilia delle olimpiadi di Rio 2016, una delle nostre maggiori speranze si infortunò: Gianmarco Tamberi si lesionò il legamento deltoideo della caviglia e dovette dare l’addio a Rio.

Con Instagram l’atleta fece sapere al mondo il suo stato d’animo: “Svegliatemi da questo incubo… Ridatemi il mio sogno vi prego… Tutti questi anni solo per quella gara, tutti questi sacrifici solo per quel giorno… vorrei dirlo, vorrei urlarlo che tornerò più forte di prima, ma ora davvero riesco solo a piangere!”.

Comprensibile l’amarezza per l’occasione sfumata, ma sinceramente è difficile proporre Tamberi come esempio di sportivo. Rio per l’atleta italiano era una specie di ossessione, un sogno, anziché un obbiettivo. Premesso che chi affronta una competizione con simili aspettative alla fine può fare cilecca proprio per l’eccessivo carico emotivo (e quindi non era certo sicuro che avrebbe vinto), la parola che meno mi piace è “sacrifici”. Quando qualcuno fa qualcosa che ama, la parola sacrificio non esiste. Fra un’ora farò un 6×1000 m e sarà una grande fatica, per… nulla. Solo perché mi piace correre, sentirmi vivo e respirare l’aria dei campi nei quali correrò.

Evidentemente Tamberi ha (se non è cambiato…) un’autostima da risultato, quel tipo di autostima che ti porta a fare tanti sacrifici, spesso rinnegando sé stessi e rinunciando a un po’ della propria vita. Esattamente come quelli che si ammazzano di lavoro per fare carriera, Tamberi aveva posto la sua felicità in quell’oro olimpico. Più che uno sportivo è solo un ragazzo condizionato a cercare soddisfazioni nella vita. Ho sentito dire che fra i sacrifici che ha fatto c’è stato anche quello di lasciare il suo “amato” basket. Beh, in genere è meglio fare le cose che si ama, non quelle che danno il riconoscimento della gente e i titoli sui giornali.

Il modo giusto di affrontare un obbiettivo mancato

Anni fa mi fu chiesto chi avessi maggiormente apprezzato alle olimpiadi di Pechino 2008. La mia risposta iniziò al negativo, eliminando tutti quegli atleti che, in caso di vittoria o di sconfitta (un telecronista romantico potrebbe parlare di “cocente delusione”), avevano dato in escandescenze con lacrime, salti di gioia, capelli strappati o simili. Per questo motivo, personaggi come Vezzali o Montano erano finiti agli ultimi posti della mia classifica. Il motivo è che

un atleta che parla in lacrime della medaglia che l’ha ripagato di tutti i sacrifici fatti nega praticamente l’amore per quello che fa.

Questi atleti hanno nei confronti dello sport un approccio nevrotico che poco li aiuterà quando saranno ritornati nell’anonimato sportivo e potranno vivere solo di ricordi, soprattutto se il loro sport non è tale da garantire uno stabile cambiamento di vita.

Il vero sportivo che ama il suo sport sa che

la fatica non è un sacrificio, ma diventa una gratificazione.

La mia palma allora andò a Lori (Lolo) Jones, ostacolista americana che, inciampando al penultimo ostacolo, era arrivata solo settima in una gara in cui era favoritissima. All’arrivo uno sguardo solo stupito, poi, ancora a caldo, alla giornalista che l’intervistava: “È andata male, ma pazienza; è tutta esperienza che servirà per il futuro!”.

Quindi, provate a mettervi nei panni di chi per mesi si allena per andare alle olimpiadi, è favorito e poi inciampa al penultimo ostacolo. Valutate la vostra reazione. Se vi mettete a piangere o spaccate a calci un tabellone pubblicitario, non si può certo dire che siete top!

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