Genitori killer, all’assalto di professori, allenatori di calcio o di altri sport. Un fenomeno che si sta diffondendo sempre più e che è un altro evidente segnale del nostro degrado.
Non si tratta di forme di violenza che sono nate all’improvviso: sono anni che esiste la figura del genitore fallito e frustrato che alle partite di calcio del figlio urla contro l’arbitro o, peggio, contro il bambinetto che marca suo figlio. Solo che oggi dalle parole si passa spesso ai fatti con un degrado civile che non può passare inosservato.
Distinguiamo le due situazioni.
Nella scuola non si può escludere che un professore non sia all’altezza della situazione e/o che penalizzi un allievo per sue convinzioni personali. Da questo punto di vista sbaglia chi pensa che il professore debba sempre e comunque avere l’ultima parola. Una versione troppo severa della scuola che rischia di diventare il contraltare di quella dove il genitore è il potente padrone delle sorti scolastiche del figlio.
Nella dialettica genitore-insegnante l’equilibrio deve essere tale da non innescare nessuna violenza, quindi con grande forza calma è giusto che, in caso di divergenze, entrambi sappiano far valere le loro ragioni. Quasi sempre queste pendono dalla parte dell’insegnante che, difficilmente, è talmente condizionato da suoi pregiudizi da penalizzare pesantemente l’alunno. Molto più spesso capita che il genitore voglia intervenire su situazioni scolastiche che non gli competono. Per ogni genitore, una buona regola sarebbe quella di analizzare non solo la situazione del figlio, ma anche quella dei compagni di classe per capire fino a dove il suo giudizio della situazione è offuscato dalla sua partigianeria di genitore. Se nella classe non ci sono altri evidenti malumori, è molto probabile che sia proprio il suo ragazzo che è in difetto e volerlo a tutti i costi assolvere è il peggior danno che gli si possa fare.
Nel caso, dopo attenta analisi, il genitore resti convinto della sua posizione, è fondamentale un dialogo civile con l’insegnante. Qui, normalmente casca l’asino. In tutti i sensi, poiché spesso il genitore non è in grado, soprattutto alle superiori, di capire lo scenario perché culturalmente è un asino che si fa giustizia, invece che con i calci con i pugni. Qualunque genitore che voglia contestare l’insegnamento di un professore dovrebbe per lo meno capire qualcosa della materia nella quale, secondo lui, l’insegnante sarebbe carente. Certo, il professore può avere dei pregiudizi nei confronti del ragazzo, pregiudizi che nulla c’entrano con la materia, ma come posso “dimostrarlo” se di quella materia non so nulla? L’incapacità di trovare altri mezzi se non la forza è spesso il segnale che ogni dialogo è impossibile perché il genitore, al pari del figlio, è un asino senza speranza. Nei rarissimi casi in cui il genitore fosse preparato al dialogo con l’insegnante e questi rivelasse sostanziali pecche professionali, l’azione nei suoi confronti andrebbe portata avanti sempre con forza calma: diventa un qualunque scontro fra persone civili, scontro dal quale il ragazzo potrebbe imparare il modo corretto di comportarsi nella vita.
Sui campi di calcio o di altri sport il discorso è totalmente diverso. I fattori che diversificano la situazione rispetto alla scuola sono due:
- per un bambino che fa sport non può essere il risultato quello che conta, ma soprattutto il divertimento;
- non c’è nessun obbligo da parte del genitore di scegliere quel particolare ambiente.
In realtà, per il genitore killer conta solo il risultato e lui vede nell’associazione sportiva il solo mezzo per raggiungerlo. Il genitore che urla alla partita del figlio, che se la prende con l’allenatore è di solito un frustrato che sogna per il figlio quella vita che lui non ha avuto, sia una vita sportiva sia in generale. Non è amore amplificato da un’ingiustizia subita da chi si ama, ma solo l’insofferenza a un’altra batosta che non si aspettava: il figlio non solo non diventerà un campione, ma resterà anche nella mediocrità sportiva del suo piccolo ambiente. Detto questo, nessuno può assolvere un genitore che arriva a minacciare o a picchiare fisicamente un allenatore: se anche il preparatore fosse un incapace, si manda il figlio da un’altra parte: se entro in un negozio e trovo personale impreparato, vado in un altro, non picchio il commesso perché non mi ha dato quello che cercavo.
Un genitore può anche essere arrabbiato per il comportamento di un allenatore o di un insegnante, ma
il diritto alla rabbia cessa non appena alza la mano per colpire.
Le cose che ho detto in questo articolo sono ovvie, ma le avete mai sentire raccontare da un politico? Lo avete mai sentito parlare di “poveri frustrati” riferito a quei genitori che urlano e minacciano alle partite dei loro figli? Se il degrado dell’Italia è in crescita è anche merito di tutti quei politici che, invece di educare gli italiani, parlano di zero virgola e magari di lotta alla criminalità. Cosa vuoi sconfiggere la mafia se non sai tenere a freno (e punire) un povero idiota che insulta un bambino di 8 anni che ha spintonato il “suo”, destinato a diventare un nuovo Messi?