Franco se n’è andato a quasi 90 anni, qualche anno fa. L’avevo saputo da un amico con il quale, per caso, stavo ricordando un episodio di tanti anni fa. Io e Fabio (il mio amico) eravamo stati invitati a una battuta di caccia in riserva da un conoscente dei nostri genitori che aveva saputo della passione per la caccia dei due adolescenti diciassettenni. Avevamo accettato con interesse, ma dopo minuti di immersione nel gruppo di cacciatori avevamo già cambiato idea.
Il gruppo era formato da gente di successo che poteva permettersi gli alti costi della battuta oppure era stato invitato per il rango sociale che occupava. Fra gli altri, c’erano il primario dell’ospedale, un ufficiale della polizia o dei carabinieri, il noto avvocato, il commerciante pieno di soldi, l’industrialotto con il costosissimo fucile dal calcio finemente intarsiato. Nonostante fossero gli anni post-sessantotto non eravamo critici per l’ostentazione di sé che quell’umanume misto di ricchezza e successo emanava, ma perché in loro mancava il rispetto, per la caccia, per i cani, per la campagna, per ogni cosa. Anche per Franco, il nostro accompagnatore, un uomo vicino ai sessanta, ma con l’agilità di chi ha sempre lavorato nei campi. Eseguiva il suo compito con deferenza, anche se a tratti avevo l’impressione che fosse eccessiva, una sorta di divertimento con quel campionario di falsa umanità.
Ci guidò per un paio d’ore alla ricerca di facili fagiani, spesso liberati la sera prima; io e Fabio sparammo al massimo un paio di colpi, in parte anche impauriti dalla disinvoltura con cui i nostri compagni maneggiavano i fucili e si divertivano a fare a gara a sparare a ogni cosa di multicolore si muovesse a mezzo metro da terra. Rimanevamo nelle retrovie, a fianco di Franco che, a ogni assurda performance dei cacciatori, scuoteva impercettibilmente la testa. Notai quel lievissimo movimento e mi accorsi che ogni volta che si materializzava precedeva nella mia testa un commento poco positivo sul cretino di turno. E a poco a poco, nonostante la sua aria taciturna, un po’ introversa, Franco mi diventava molto simpatico.
Ritornammo in prossimità della cascina dove si stava organizzando il classico banchetto che seguiva le battute. Per formalità, gettando un braccio verso il cielo, Franco chiese se volessero andare su per una collina a cercare le starne, certo che tutti avrebbero preferito l’imminente abbuffata, il meritato premio per gli eroi della battuta di caccia. Tutti cortesemente rifiutarono, tranne Fabio che rispose: “Non ho mai cacciato le pernici, se ha tempo…”. Io mi aggregai, se non altro per liberarmi degli scomodi compagni. Franco non fu sorpreso, ma rimase imperscrutabile, senza tradire nessun disappunto.
Ci fece camminare per un paio d’ore, fin quasi al tramonto. A volte avemmo l’impressione che ci facesse girare a vuoto, proprio come un poco onesto tassista che allunga la corsa per far pagar di più il cliente. Alla fine però arrivammo nel luogo delle starne. I due cani incominciarono a sentire i selvatici e a muoversi più cautamente. Ci disponemmo a ventaglio, io a sinistra, Fabio a destra, Franco dietro che ci controllava. Le starne partirono dalla parte di Fabio che imbracciò velocemente il fucile, puntando la più vicina. Ma non sparò e dopo pochi secondi abbassò l’arma e osservò le pernici perdersi nella valle. Pensai che il fucile si fosse inceppato, ma scartai subito l’ipotesi perché Fabio aveva un sovrapposto. Finché Franco gli chiese: “Perché non ha sparato?”.
Fabio rispose con calma, ma convinto: “Perché quelle sono le sue pernici. Si è divertito troppo nel portarci quassù, se gliele prendevamo era come derubarla di qualcosa; in fondo le abbiamo viste volare…”.
Franco fu molto loquace nel ritorno e i racconti di caccia della sua vita illuminarono il cammino portandoci, ormai a buio, di nuovo in cascina. La sua vita; una vita che i nostri compagni di caccia avrebbero sicuramente giudicata mediocre, ma che agli occhi miei e di Fabio appariva eccezionale.
Mentre gli altri erano passati dal banchetto direttamente alla cena, Franco ci offrì una bibita nel piccolo bar attrezzato nella reception della sala ristorante. Mentre stavamo sorseggiando la bibita, entrò uno dei nostri compagni di battuta; portava in entrambe le mani un mazzo di fagiani con cui voleva farsi fotografare al tavolo dei suoi amici. Gli scappò un: “E allora, le avete prese le pernici?”.
Io e Fabio rimanemmo impacciati, un po’ distrutti da quei fagiani che sembravano ridicolizzare le nostre infruttuose fatiche pomeridiane: in fondo, anche se Fabio avesse sparato, saremmo tornati con una, al massimo due piccole pernici. Questo doveva passarci nella testa, paralizzando ogni risposta sensata finché Franco ci venne in aiuto con un glaciale: “No, ma le abbiamo viste volare!”.
Riprendemmo coraggio, come se quelle parole avessero dissolto i banali fagiani nelle mani dell’uomo, rendendolo nudo e meschino. Io mi sentii enormemente pieno della gioia di aver vissuto quella giornata, della quale, anche potendolo, non avrei cambiato nemmeno una virgola. Avevamo imparato che cos’è un valore.