Periodicamente una donna scrive un libro sui dolori della maternità. Anni fa fu la volta della Simon (vedi La ricerca di Simon nell’articolo Figli), tempo dopo è uscito un libro (Regretting Motherhood) della sociologa israeliana Orna Donath, ricercatrice della Ben Gurion University. Su la Repubblica un’intervista con l’autrice da parte di un’altra donna. Un’intervista equilibrata che non vuole spostare la tesi dell’autrice su altre più “convenzionali”: “Se tornassi indietro non farei un figlio”. È la maternità come la raccontano 23 donne alla sociologa Orna Donath. Di seguito riassumo il pensiero della Donath con miei commenti.
Cosa ribatte a chi l’accusa di non aver condotto una ricerca scientificamente seria? Le testimonianze che ha raccolto sono solo poche decine…
“La statistica è un modo, non l’unico, per comprendere la vita”.
Infatti, esiste anche il senso statistico che nasce dall’esperienza di centinaia di casi. Su esso ho scritto Figli e qualità della vita. È innegabile che, con i figli, la qualità della vita mediamente diminuisca. Vediamo un percorso classico.
A 18-20 anni molte poche ragazze ambiscono a diventare madri. Pensano agli studi, alla carriera, all’amore. Insomma, hanno obiettivi (i romantici li chiamano sogni) e al più pensano a una maternità più in là. Questo è un dato di fatto. Per queste madri “differite” ci sono poi tre condizioni che accendono il desiderio materno:
- Si spegne il rapporto con il partner, ma non tanto da divorziare o da separarsi (magari lo fanno dopo la nascita dei figli). C’è “tempo” per fare un figlio.
- Si spengono i sogni sul lavoro, sulla carriera, non si hanno hobby importanti, le giornate sono vuote, ecco che viene il “tempo” per fare un figlio.
- Le pressioni sociali, i condizionamenti familiari (genitori e suoceri) alla fine prevalgono e, magari in extremis, la donna diventa madre.

Nel 2021, in Italia, sono nati 399.400 bambini
Nel primo caso c’è una netta sottovalutazione dell’impegno. Il figlio viene sì amato, ma è evidente che spesso è un peso: anche quando non è strettamente necessario, lo si parcheggia dai nonni o all’asilo per avere un po’ di libertà. Questo concetto ammazza ogni presunta dichiarazione di amore incondizionato verso il figlio. In molti casi, senza arrivare a una depressione post partum, la donna capisce che la qualità della sua vita è peggiorata, ma resiste, spera che le cose migliorino. E in effetti migliorano, il figlio cresce, entra nell’età dell’oro (vedi il già citato Figli e qualità della vita) e sembra che la scelta sia indovinata. Poi però vengono le altre età e incominciano nuovamente i problemi.
Il secondo caso è quello più facile per la donna, ma anche quello più triste. Il figlio (come per altre il lavoro) diventa un riempitivo della vita. Senza di esso, non avrebbe nulla. Possibile che a 30 anni non abbia trovato qualcosa da amare? Zero. La mia decisione di non avere figli è successiva alla consapevolezza che sarei stato di fronte a una scelta: essere un cattivo padre o rinunciare alle tante cose che amavo. E la scelta è stata facile. Arrampicandosi sugli specchi, molti ti vengono a dire che si poteva conciliare, ma è una penosa bugia per salvaguardare le proprie scelte. Se io amo mia moglie non ho bisogno di parcheggiare i figli di qua o di là per passare una serata tutta nostra. Se amo questo o quello voglio farlo e ogni rinuncia mi peserebbe, banale: perché dovrei rinunciare? Ecco che entra in gioco il concetto di sacrificio: “Sì, per i figli bisogna sacrificarsi, ma ne vale la pena”. Sacrifici? Ma perché? Io quando faccio quello che amo non parlo mai di sacrifici. Se dicessi “a me piace correre, ma sai quanti sacrifici per potermi allenare?” sono sicuro che il mio interlocutore penserebbe “Sacrifici? Ma allora sei scemo, chi te lo fa fare di correre?!”.
Il terzo caso è ormai molto comune, con donne che cercano la maternità dopo i 35 o addirittura i 40 anni. La maternità diventa un “compito”, un “dovere”, magari favorito da quello che l’autrice evidenzia nella seconda risposta.
Perché si è interessata a questo ambito?
Da quando avevo 16 anni so che non avrei voluto figli. Poi ho capito che la società si poneva nei miei confronti come con qualcuno che aveva un problema. Sono stata perseguitata con l’anatema: “Un giorno te ne pentirai”.
Ricordo che a un funerale di un mio parente rividi una lontana zia che mi chiese come stessi, se mi fossi sposato, se avessi avuto figli. Quando le dissi che non avevo figli, dando per scontato che io non avessi potuto averne, rimase un po’ imbarazzata nell’avermelo chiesto (come quando si chiede a qualcuno come sta la madre e quello ti risponde che è morta da tre anni!). Poiché ho un carattere forte, non subii il condizionamento, anzi, mi affrettai a risponderle: “Non ne abbiamo voluti, sai, noi siamo furbi, vogliamo goderci la vita!”.
Regretting motherhood implica odiare i propri figli?
Ovviamente no, tutte le donne che ho intervistato li amano profondamente, ma odiano essere la loro madre.
Un mio follower ha scritto: “Mi sembra assurdo… è come dire io amo gli scacchi ma non ci giocherei mai…”. Il paragone non è del tutto esatto. Ci sono persone che amano il calcio, ma non ci giocano. Il termine amore è continuo, può andare da un minimo a un massimo. Qualcosa che si ama può in alcuni casi peggiorare la qualità della propria vita. Esattamente come un matrimonio non proprio ben riuscito (ma che si tiene così com’è).
Capisco però cosa voleva dire il mio follower. I figli non sono oggetti d’amore per quelle madri (un oggetto d’amore non comporta sacrifici); e per il 90% delle madri è così. Sono riempitivi della vita che danno sensazioni anche molto positive, ma che comportano anche sacrifici (è questo che non li rende “oggetti d’amore”). Se vogliamo sono come un buon lavoro, con un indice di qualità piuttosto alto. Quante persone dicono di amare il loro lavoro (ma non rinuncerebbero mai ai week-end o alle ferie per lavorare)! Analogamente, molte madri amano i figli, ma (come per il lavoro) pesa essere madri.
Per concludere. Prima di voler essere genitori, se ci tenete alla qualità della vostra vita, cercate di superare il test in 7 punti.